Quali sono i momenti più difficili dopo la fine di una storia d’amore? Ce li racconta Arisa nella canzone “La notte”, composizione dolce e raffinata in cui mette a nudo le sue sensazioni più intime.
Con voce delicata e suggestiva ci confida che mentre di giorno si può fingere di stare bene, negando la sofferenza che si prova, la verità arriva di notte, nella solitudine del nostro animo.
Dopo la fine di un legame importante, un dolore diffuso, persistente e insostenibile, ci invade il corpo, la mente, il cuore e l’anima, e non ci lascia scampo.
Quando siamo soli, nel silenzio della notte, le nostre ginocchia tremano, lo stomaco si chiude, la testa scoppia, il cuore batte martellante, gli occhi si riempiono di lacrime.
E non riusciamo a dormire perché la nostra mente vaga alla ricerca di un senso e di una accettazione che non riusciamo a trovare. I pensieri ci tormentano, l’amore ci manca, la nostalgia che proviamo aumenta ogni minuto che passa.
Arisa arriva a una prima profonda riflessione: anche se la vita ci ha separati da chi amiamo, l’amore che proviamo per quella persona è eterno e continuerà.
Nel momento del dolore, che ha una sua dignità e funzione vitale, nulla ci porta sollievo: non basta un raggio di sole a illuminare un cielo scuro; non basta scrivere su un foglio i propri pensieri; non basta sapere che si è entrambi sconfitti, perché le motivazioni fondate o infondate contano sempre meno. Arisa chiede “il sole dov’è”. Manca il calore, la luce, l’energia, la vita. E’ come se fosse sceso un lungo inverno, fatto di freddo, buio e ghiaccio e si vaga dentro se stessi come lei nel videoclip vaga in casa, da una finestra all’altra.
Dopo averci parlato della profonda sofferenza che si prova, Arisa ci congeda con una seconda riflessione piena di speranza: “l’amore può allontanarci. La vita poi, continuerà”. Anche se ci sembra di non riuscire a superare il dolore, il progredire incessante della vita, ci prenderà per mano e ci porterà altrove e nel tempo, dentro il nostro cuore, si creerà spazio per un nuovo amore.
Testo “La notte” (Arisa)
Non basta un raggio di sole in un cielo blu come il mare Perché mi porto un dolore che sale, che sale Si ferma sulle ginocchia che tremano e so perché E non arresta la corsa lui non si vuole fermare Perché è un dolore che sale, che sale e fa male Ora è allo stomaco fegato, vomito, fingo, ma c’è
E quando arriva la notte E resto sola con me La testa parte e va in giro In cerca dei suoi perché Né vincitori, né vinti Si esce sconfitti a metà La vita può allontanarci L’amore continuerà
Lo stomaco ha resistito anche se non vuol mangiare Ma c’è il dolore che sale, che sale e fa male Arriva al cuore lo vuole picchiare più forte di me Prosegue nella sua corsa, si prende quello che resta Ed in un attimo esplode e mi scoppia la testa Vorrebbe una risposta, ma in fondo risposta non c’è
Il sale scende dagli occhi Il sole adesso dov’è Mentre il dolore sul foglio è Seduto qui accanto a me Che le parole nell’aria Sono parole a metà Ma queste sono già scritte E il tempo non passerà
Ma quando arriva la notte, la notte E resto sola con me La testa parte e va in giro In cerca dei suoi perché Né vincitori, né vinti Si esce sconfitti a metà La vita può allontanarci L’amore poi continuerà
E quando arriva la notte, la notte E resto sola con me La testa parte e va in giro In cerca dei suoi perché Né vincitori, né vinti Si esce sconfitti a metà L’amore può allontanarci La vita poi, continuerà
La canzone “La ballata dell’Amore cieco” di Fabrizio de Andre descrive la dinamica di un amore che arriva a far diventare cieca una persona. Nel testo della canzone si parla di continue prove estreme d’amore che la persona amata chiede all’altro, finalizzate ad annullare del tutto la personalità in un perverso gioco di potere
“Un uomo onesto, un uomo probo Tralalalalla tralallaleru S’innamorò perdutamente D’una che non lo amava niente.Gli disse portami domani Tralalalalla tralallaleru Gli disse portami domani Il cuore di tua madre per i miei cani.Lui dalla madre andò e l’uccise Tralalalalla tralallaleru Dal petto il cuore le strappò E dal suo amore ritornò.Non era il cuore, non era il cuore Tralalalalla tralallaleru Non le bastava quell’orrore Voleva un’altra prova del suo cieco amore.Gli disse amor se mi vuoi bene Tralalalalla tralallaleru Gli disse amor se mi vuoi bene Tagliati dei polsi le quattro vene.Le vene ai polsi lui si tagliò Tralalalalla tralallaleru E come il sangue ne sgorgò Correndo come un pazzo da lei tornò.Gli disse lei ridendo forte, Tralalalalla tralallalero Gli disse lei ridendo forte, L’ultima tua prova sarà la morte.E mentre il sangue lento usciva E ormai cambiava il suo colore, La vanità fredda gioiva, Un uomo s’era ucciso per il suo amore.Fuori soffiava dolce il vento Tralalalalla tralallaleru Ma lei fu presa da sgomento Quando lo vide morir contento.Morir contento e innamorato Quando a lei niente era restato Non il suo amore non il suo bene Ma solo il sangue secco delle sue vene. “
La bellssima “Canzone dell’Amore Perduto” di Fabrizio de Andrè descrive l’illusione iniziale di ogni amore per sempre: “Non ci lasceremo mai, mai e poi mai”. Ma col tempo tutto si trasfoma e può finire: vorrei dirti ora le stesse cose ma come fan presto, amore, ad appassire le rose così per noi . Perchè si confonde la passione per amore per sempre, ma la passione è destinata, insorabilmente a finire. E si finisce per cercare una nuova passione con l’illusione, questa si eterna, di trovare un amore per sempre.
Ricordi sbocciavan le viole con le nostre parole “Non ci lasceremo mai, mai e poi mai”,
vorrei dirti ora le stesse cose ma come fan presto, amore, ad appassire le rose così per noi
l’amore che strappa i capelli è perduto ormai, non resta che qualche svogliata carezza e un po’ di tenerezza.
E quando ti troverai in mano quei fiori appassiti al sole di un aprile ormai lontano, li rimpiangerai
ma sarà la prima che incontri per strada che tu coprirai d’oro per un bacio mai dato, per un amore nuovo.
E sarà la prima che incontri per strada che tu coprirai d’oro per un bacio mai dato, per un amore nuovo.
Questa favola di Hermann Hesse descrive, attraverso l’uso della metafora dell’albero, che ogni forma diventa completa se si unisce ad un altra. Si può vivere benissimo da soli ma prima o poi ci si confronta con la mancanza di una persona da amare che permette di completare la nostra esistenza.
Piktor era appena entrato in Paradiso, quando si trovò di fronte ad un albero, che era nel contempo uomo e donna. Piktor salutò l’albero con riverenza e gli chiese: “ Sei tu l’Albero della Vita?” Siccome, tuttavia, il serpente pretendeva di rispondergli al posto dell’albero, egli volse le spalle e se ne andò. Era tutto occhi, gli piaceva tutto così tanto. Percepiva chiaramente di trovarsi a casa sua, presso la sorgente della vita. E di nuovo vide un albero, che era nel contempo sole e luna. Piktor disse: “Sei tu l’albero della vita?”.
Il sole annuì e rise, la luna annuì e sorrise. I fiori più meravigliosi lo guardarono, con svariati colori e luce, con occhi e visi diversi. Alcuni annuivano e ridevano, altri annuivano e sorridevano, altri ancora né annuivano, né sorridevano. Tacevano ebbri, immersi in se stessi, come affogando nel proprio profumo. Uno cantava il canto lillà, un altro cantava la ninnananna blu scura. Uno dei fiori aveva grandi occhi blu, un altro gli ricordava il suo primo amore. Uno odorava di giardino dell’infanzia, come la voce della madre, il suo dolce buon odore. Un altro gli sorrideva e tendeva verso di lui una curva lingua rossa. Lui la leccò, essa aveva un sapore forte e selvaggio, sapeva di resina e miele e anche del bacio di una donna. Tra tutti i fiori Piktor s’aggirava pieno di nostalgia e gioia inquieta. Come se fosse una campana, il suo cuore batteva forte; bramava l’ignoto, incerto era il suo desiderio. Piktor vide un uccello, lo vide seduto nell’erba, raggiante di colori, sembrava che possedesse tutti i colori. Chiese al bell’ uccello variopinto: “ Oh uccello, dov’è la felicità?” “La felicità?”, rispose il bell’uccello e rise con il suo becco dorato, ” la felicità, amico mio, è dappertutto, nelle montagne e nelle valli, nei fiori e nei cristalli.
Con queste parole l’uccello felice scosse le sue piume, tirò il collo, agitò la coda, strizzò l’occhio, rise di nuovo, poi rimase seduto immobile, seduto tranquillamente nell’erba, ed ecco: l’uccello era diventato un fiore colorato, piume, foglie, artigli e radici. Nella brillantezza dei colori, danzando, divenne una pianta. Piktor lo guardò con meraviglia. Subito dopo il fiore uccello mosse le sue foglie e gli stami, già si era stancato di essere un fiore, non aveva più radici, si moveva leggero, pendeva lentamente all’insù e già – era diventato una splendente farfalla, che si cullava sospesa, senza peso, tutta luce, con un viso completamente luminoso. Piktor si stupì molto.
Ma la nuova farfalla, la gioiosa e variopinta farfalla uccello fiore con il volto colorato e luminoso volava in cerchio attorno a Piktor, brillò al sole, si fece cadere a terra come un fiocco, rimase ferma davanti ai piedi di Piktor, respirò delicata, tremò un po’ con le ali splendenti, ed ecco che si trasformò in un cristallo colorato, dal quale brillava una luce rossa. La rossa pietra preziosa splendeva meravigliosamente tra l’erba verde e le piante, chiara come delle campane in festa. Il suo regno, però, la profondità della terra, sembrava che la chiamasse; velocemente cominciò a diventare sempre più piccola, minacciando perfino di sparire. Allora Piktor, spinto da un insaziabile desiderio, si avvicinò alla pietra e la portò a sé. Con entusiasmo, egli fissò lo sguardo nella sua luce magica che sembrava riempirgli il cuore con un presentimento di beatitudine. All’improvviso, strisciando sul ramo di un albero secco, il serpente gli sibilò nell’orecchio: “La pietra si trasforma in tutto ciò che vuoi. Svelto, dille il tuo desiderio, prima che sia troppo tardi! Piktor si spaventò, temendo di perdere la sua felicità. Velocemente disse la parola e si trasformò in un albero. Ecco, proprio questo aveva desiderato da sempre, essere un albero. Gli alberi sembravano così pieni di calma, forza e dignità. Piktor era diventato un albero. Crebbe con le radici nella terra, si alzò verso il cielo, foglie e rami crescevano dalle sue membra e lui fu molto soddisfatto di ciò.
Egli era molto felice. Succhiò con fibre assetate profonde nella terra fresca e soffiava con le sue foglie in alto nel blu. I coleotteri vivevano nella sua corteccia, ai suoi piedi vivevano lepri e tartarughe, nei suoi rami gli uccelli. L’albero Piktor era contento e non contava gli anni che passavano. Passarono molti anni prima di rendersi conto che la sua felicità non era perfetta. Lentamente imparò a vedere con gli occhi da albero. Alla fine si vide e diventò triste.
Infatti, egli vide che intorno a lui, in paradiso, la maggior parte degli esseri si trasformava molto spesso, che tutto scorreva in un flusso incantato di perenni trasformazioni. Vide i fiori diventare pietre preziose o volare via come folgoranti colibrì. Vide accanto a sé più di un albero scomparire all’improvviso: uno si era sciolto in una fonte, un altro era diventato un coccodrillo, un altro ancora nuotava fresco e contento con grande piacere, come un pesce allegro guizzando, inventando nuovi giochi in nuove forme. Elefanti prendevano la veste di rocce, giraffe la forma di fiori. Lui invece, l’albero di Piktor, rimaneva sempre lo stesso, non poteva più trasformarsi. Dal momento in cui scoprì questo, la sua felicità svanì: cominciò ad invecchiare e assunse sempre più quell’aspetto stanco, serio e afflitto, che si può osservare in molti vecchi alberi. Lo si può vedere tutti i giorni anche nei cavalli, negli uccelli, negli uomini e in tutti gli esseri: Quando non possiedono più il dono della trasformazione, prima o poi sprofondano nella tristezza e nell’abbattimento, e perdono ogni bellezza. Un bel giorno, una fanciulla dai capelli biondi e dal vestito azzurro si perse in quella parte del Paradiso. Correva tra gli alberi e prima di allora non aveva mai pensato di desiderare il dono della trasformazione. Più di una furba scimmia sorrise alle sue spalle, più di un cespuglio la sfiorò teneramente con un virgulto, più di un albero le gettò un fiore, una noce, una mela senza che lei vi badasse. Quando l’albero Piktor vide la fanciulla, sentì una grande nostalgia, un desiderio di felicità come non gli era ancora mai accaduto. E allo stesso tempo cominciò a riflettere, era come se il suo stesso sangue gli gridasse: “Ritorna in te ! Ricordati in questa ora di tutta la tua vita, trovane il senso, altrimenti sarà troppo tardi e non ti sarà più data alcuna felicità. Ed egli obbedì. Si ricordò delle sue origini, dei suoi anni da uomo, del suo ingresso nel Paradiso, e specialmente di quell’attimo, prima che diventasse un albero, quell’attimo meraviglioso in cui aveva tenuto in mano la pietra magica. Allora, mentre ogni cambiamento gli era aperto, la vita era stata ardente in lui come non mai! Egli pensò all’uccello, che aveva riso, all’albero con il sole e la luna; gli venne l’idea che aveva omesso qualcosa, dimenticato qualcosa, e che il consiglio del serpente non era stato buono.
La ragazza sentì un fruscio tra le foglie dell’albero Pictor, alzò lo sguardo e sentì muoversi dentro di lei, con un improvviso dolore al cuore, nuovi pensieri,nuovi desideri, nuovi sogni. Attratta da una forza sconosciuta si sedette sotto l’albero. Esso le appariva solitario e triste, ma anche bello, commovente e nobile nella sua muta tristezza; era incantata dalla canzone che sussurrava lieve la sua chioma. Si appoggiò al suo tronco ruvido e sentì l’albero rabbrividire profondamente. Sentì lo stesso brivido nel proprio cuore. Il suo cuore era stranamente dolente, nel cielo della sua anima scorrevano nuvole, dai suoi occhi cadevano lentamente pesanti lacrime. Cosa stava succedendo? Perché doveva soffrire così? Perché il suo cuore voleva spaccare il petto e andare a fondersi con lui, con esso, con il bel solitario?
L’albero tremò silenzioso fin nelle radici, tanto intensamente raccoglieva in sé ogni forza vitale e si protendeva verso la ragazza in un ardente desiderio di unione. Perché si era lasciato raggirare dal serpente per essere confinato così per sempre solo in un albero! Oh come era stato cieco, come era stato stolto! Davvero, allora sapeva così poco, davvero era stato così lontano dal segreto della vita? No, anche allora l’aveva oscuramente sentito e presagito e con dolore e profonda comprensione pensò ora all’albero che era fatto di uomo e di donna! Un uccello rosso venne volando, un uccello verde e rosso, un uccello ardito e bello, descriveva nel cielo un cerchio. La fanciulla lo vide volare, vide cadere dal suo becco qualcosa che brillò di rosso come il sangue rosso, come la brace, cadde tra le verdi piante e splendette di tanta familiarità tra le verdi piante. Il richiamo squillante della sua rossa luce era tanto intenso che la fanciulla si chinò e sollevò quel rossore. Ed ecco che era un cristallo, un rubino ed intorno ad esso non ci poteva essere oscurità.
Non appena la fanciulla ebbe la pietra fatata nella sua bianca mano, si avverò il sogno che le aveva riempito il cuore. La bella fu presa, svanì e divenne tutt’uno con l’albero, si affacciò dal suo tronco come un robusto giovane ramo che rapido si innalzò verso di lui. Ora tutto era a posto, il mondo era in ordine solo ora era stato trovato il paradiso. Piktor non era più un vecchio albero intristito, ora cantava forte Piktoria, Viktoria. Egli fu trasformato. Perché questa volta aveva raggiunto la giusta, l’eterna trasformazione, perché da una metà era diventato l’intero. D’ora in poi avrebbe potuto trasformarsi quanto volesse. Continuamente scorreva il flusso incantato del divenire attraverso il suo sangue, eternamente prendeva parte al creato che sorgeva ogni ora nuovo. Egli diventò capriolo, diventò pesce, diventò uomo e serpente, nuvola e uccello. Ma in ogni forma era completo, era una coppia, aveva la luna e il sole, aveva in sé il maschio e la femmina, scorreva come un fiume gemello attraverso le terre, stava come una duplice stella nel cielo.
Carmen Consoli nella canzone “Amori di Plastica” descrive quegli amori dove non esiste, rispetto, reciprocità, attenzione verso la persona amata. Allo stesso tempo il testo della canzone suggerisce la possibile terapia quando afferma ” Ma io non posso accontentarmi Se tutto quello che sai darmi È un amore di plastica “ Anche se nella realtà , talvolta, si ha difficoltà a buttare via un amore di plastica. Invece è necessario andare alla ricerca di amori composti da “materiali” più pregiati.
Non sei per nulla obbligato a comprendermi Quasi non sento il bisogno d’insistere E tu che mi offrivi un amore di plastica Ti sei mai chiesto se onesto era illudermi Ricorda tu sei quello che non c’è Quando io piango E tu sei quello che non sa Quando è il mio compleanno Quando vago nel buio Ma come posso dare l’anima e riuscire a credere Che tutto sia più o meno facile Quando è impossibile Volevo essere più forte di ogni tua perplessità Ma io non posso accontentarmi Se tutto quello che sai darmi È un amore di plastica E tu sei quel fuoco che stenta ad accendersi Non hai più scuse eppure sai confondermi Ricorda tu sei quello che non c’è Quando io piango E tu sei quello che non sa Quando è il mio compleanno Quando vago nel buioMa come posso dare l’anima e riuscire a credere Che tutto sia più o meno facile quando è impossibile Volevo essere più forte di ogni tua perplessità Ma io non posso accontentarmi Se tutto quello che sai darmi È un amore di plastica Volevo essere più forte di ogni tua perplessità Ma io non posso accontentarmi Se tutto quello che sai darmi È un amore di plastica Ma io non posso accontentarmi Se tutto quello che sai darmi È un amore di plastica
La canzone “La Cura” di Battiato, oltre ad essere una delle più belle canzoni del panorama italiano, rappresenta, attraverso il testo e la melodia che l’accompagna, una cura, un antidoto per i momenti difficili della nostra esistenza.
Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie, dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via, dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo, dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai. Ti sollleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore dalle ossessioni delle tue manie. Supererò le correnti gravitazionali lo spazio e la luce per non farti invecchiare; e guarirai da tutte le malattie.
Perchè sei un essere speciale ed io avrò cura di te.
Vagavo per i campi del Tennessee, come vi ero arrivato chissà non hai fiori bianchi per me? più veloci di aquile i miei sogni attraversano il mare. Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza, percorreremo assieme le vie che portano all’essenza. I profumi d’amore inebrieranno i nostri corpi, la bonaccia d’Agosto non calmerà i nostri sensi. Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto, conosco le leggi del mondo e te ne farò dono. Supererò le correnti gravitazionali lo spazio e la luce per non farti invecchiare; ti salverò da ogni malinconia.
Perchè sei un essere speciale ed io avrò cura di te. Io sì che avrò cura di te
La canzone di Ed Sheeran “All of the stars” descrive in maniera poetica come fare per poter rimanere in contatto con la persona amata, seppur a distanza. Ogni altra parola di commento alla canzone è inutile, rispetto alla poesia del testo.
E’ solo un’altra notte E sto fissando la luna Ho visto una stella cadente E ho pensato a te Ho cantato una ninna nanna In riva al fiume e sapevo che Se tu fossi stata qui , L’avrei cantata a te Tu sei dall’altra parte Mentre l’orizzonte si divide in due Io sono lontano dal vederti Riesco a vedere le stelle dall’America Mi chiedo, non le vedi anche tu?
Quindi, apri gli occhi e guarda Il modo in cui i nostri orizzonti si incontrano E tutte le luci ci guideranno Nella notte con me E so che queste cicatrici sanguineranno Mentre entrambi i nostri cuori sanguineranno Tutte queste stelle ci guideranno a casa
Riesco a sentire il tuo cuore Battere in radio Stanno suonando ‘Chasing Cars’ E ho pensato a noi Indietro nel tempo , Stavi riposando accanto a me Ho guardato e mi sono innamorato Così ti ho preso la mano Ho fatto ritorni nelle strade londinesi che conoscevo Tutto ciò ha portato di nuovo a te Così puoi vedere le stelle ? Oltre Amsterdam Tu sei la canzone che il mio cuore sta suonando
Quindi, apri gli occhi e guarda Il modo in cui i nostri orizzonti si incontrano E tutte le luci ci guideranno Nella notte con me E so che queste cicatrici sanguineranno Mentre entrambi i nostri cuori sanguineranno Tutte queste stelle ci guideranno a casa
E, oh ??, lo so E, oh ??, lo so , oh Riesco a vedere le stelle dall’America
La bellissima canzone di Mina “Insieme” descrive lo stare Insieme non in una normale vita di coppia ma nei momenti della passione, quando anche un solo giorno insieme potrebbe rappresentare una vita. Una visione romantica dello stare insieme a cui dovrebbe poi seguire uno stare insieme nella quotidianeità affiche la relazione possa durare nel tempo.
Io non ti conosco Io non so chi sei So che hai cancellato con un gesto I sogni miei Sono nata ieri nei pensieri tuoi Eppure adesso siamo insiemeNon ti chiedo sai quanto resterai Dura un giorno la mia vita Io saprò che l’ho vissuta Anche solo un giorno Ma l’avrò fermata insieme a te A te che ormai sei mio Tu l’amore io Insieme, insieme La, la, la, la, la Io ti amo e ti amerò Finché lo vuoi Anche sempre se tu lo vorrai Insieme, insieme, insieme a te La, la, la, la, la, la, la, la, la Tu, tu l’amore io Insieme, insiemeIo non ti conosco Io non so chi sei So che hai cancellato con un gesto i sogni miei Sono nata ieri nei pensieri tuoi Eppure…
La canzone di Lucio Battisti “Io vivrò (senza te)” ben descrive la condizione di chi vive la fine di un amore. Una condizione di gesti quotidiani che continuano ad esserci anche senza più la presenza della persona amata . Una quotidianeità vissuta nella sofferenza ma che comunque non porta alla morte. Allo stesso modo la pensava lo scrittore Herman Hesse quando affermava: ” Ecco, vedi, io mi sono innamorato due volte nella vita, ma sul serio, e tutt’e due le volte ero sicuro che sarebbe stato per sempre e fino alla morte, e tutt’e due le volte è finita e non sono morto. “
Che non si muore per amore È una gran bella verità Perciò dolcissimo mio amore Ecco quello, quello che da domani Mi accadràIo vivrò Senza te Anche se ancora non so Come io vivrò Senza te Io senza te Solo continuerò E dormirò Mi sveglierò Camminerò Lavorerò Qualche cosa farò Qualche cosa farò Sì qualche cosa farò Qualche cosa di sicuro io faròPiangerò Sì, io piangeròE se ritorni nella mente Basta pensare che non ci sei Che sto soffrendo inutilmente Perché so Io lo so Io so che non tornerai
In questa bellissima Canzone di Simone Cristicchi è rappresentata in maniera significativa che cosa vuol dire prendersi cura della persona amata. Il testo della canzone si commenta da solo
Il tempo ti cambia fuori, l’amore ti cambia dentro Basta mettersi al fianco invece di stare al centro L’amore è l’unica strada, è l’unico motore È la scintilla divina che custodisci nel cuore Tu non cercare la felicità semmai proteggila È solo luce che brilla sull’altra faccia di una lacrima È una manciata di semi che lasci alle spalle Come crisalidi che diventeranno farfalle
Ognuno combatte la propria battaglia Tu arrenditi a tutto, non giudicare chi sbaglia Perdona chi ti ha ferito, abbraccialo adesso Perché l’impresa più grande è perdonare se stesso Attraversa il tuo dolore arrivaci fino in fondo Anche se sarà pesante come sollevare il mondo E ti accorgerai che il tunnel è soltanto un ponte E ti basta solo un passo per andare oltre Ti immagini se cominciassimo a volare Tra le montagne e il mare Dimmi dove vorresti andare Abbracciami se avrai paura di cadere Che nonostante tutto Noi siamo ancora insieme Abbi cura di me qualunque strada sceglierai, amore Abbi cura di me Abbi cura di me
Che tutto è così fragile Adesso apri lentamente gli occhi e stammi vicino Perché mi trema la voce come se fossi un bambino Ma fino all’ultimo giorno in cui potrò respirare Tu stringimi forte e non lasciarmi andare Abbi cura di me
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