Il mito di Tristano e Isotta, una delle leggende più celebri del ciclo arturiano e della tradizione cortese medievale, offre numerosi significati psicologici. Ecco alcuni dei risvolti principali:
Amore proibito e conflitto interiore: Tristano e Isotta vivono un amore intenso ma proibito, dovuto al matrimonio di Isotta con re Marco. Questo conflitto tra passione e dovere rappresenta il dilemma psicologico tra desiderio personale e responsabilità sociale. La loro storia riflette le tensioni interne che sorgono quando i desideri individuali si scontrano con le aspettative e le norme sociali.
Ambivalenza dell’amore: Il loro amore, scatenato dall’assunzione accidentale di una pozione magica, può essere visto come simbolo dell’ambivalenza e della dualità dell’amore, che può portare sia a gioia intensa che a sofferenza profonda. La pozione magica simboleggia anche l’idea che l’amore può essere incontrollabile e irrazionale, non sempre soggetto alla volontà umana.
Sacrificio e devozione: La storia è piena di sacrifici personali per l’amato, sottolineando il tema della devozione assoluta. Tristano e Isotta sono disposti a rischiare tutto per stare insieme, rappresentando l’idea che l’amore vero richiede sacrificio e dedizione, ma anche mostrando le conseguenze dolorose di tali sacrifici.
La fedeltà e il tradimento: La relazione tra Tristano e Isotta è complicata dal fatto che Isotta è sposata con re Marco. Questo triangolo amoroso esplora temi di fedeltà, lealtà e tradimento, sia verso gli altri che verso se stessi. Può essere visto come un’esplorazione delle complessità morali e psicologiche che emergono quando si affrontano dilemmi etici e sentimentali.
Il desiderio e la repressione: La loro storia riflette anche la dinamica psicologica del desiderio represso. Tristano e Isotta sono costantemente costretti a nascondere i loro sentimenti e a vivere la loro passione in segreto. Questo può rappresentare la tensione tra le emozioni profonde e le pressioni esterne che richiedono la repressione di tali emozioni.
La morte e la trascendenza dell’amore: Il tragico finale, in cui entrambi muoiono a causa del loro amore, può essere visto come un commento sulla natura trascendente dell’amore. La loro unione nella morte suggerisce che il vero amore può superare anche la morte, riflettendo la credenza che l’amore ha un potere eterno e indissolubile.
Identità e trasformazione: Tristano, come cavaliere e amante, attraversa una serie di trasformazioni identitarie. Il mito esplora come l’amore e le esperienze traumatiche possano trasformare l’identità di una persona. La sofferenza e la gioia del loro amore influenzano profondamente chi sono e chi diventano.
Questi risvolti psicologici del mito di Tristano e Isotta dimostrano come questa storia medievale possa offrire un’analisi profonda e complessa delle dinamiche dell’amore, del desiderio e delle tensioni interiori, rendendola una leggenda che continua a risuonare con significati profondi nella psiche umana.
Dottor Roberto Cavaliere Psicoterapeuta. Studio professionale in Milano, Roma e Salerno. Possibilità di effettuare sedute tramite videochiamata.
Il mito di Orfeo ed Euridice offre vari significati psicologici profondi. Ecco alcune delle interpretazioni più rilevanti:
Lutto e accettazione della perdita: La discesa di Orfeo agli Inferi per riportare indietro Euridice simboleggia il processo del lutto e il desiderio di negare o invertire la perdita di una persona amata. La sua incapacità di rispettare la condizione di non guardare indietro può rappresentare la difficoltà di lasciar andare il passato e accettare la realtà della perdita.
Potere e limiti dell’arte: Orfeo è un musicista leggendario, e la sua musica è così potente da commuovere gli dei e le creature degli Inferi. Questo può essere visto come una metafora del potere trasformativo dell’arte e della musica. Tuttavia, anche il potere dell’arte ha i suoi limiti, evidenziati dal fallimento finale di Orfeo a salvare Euridice, che potrebbe simboleggiare le limitazioni dell’arte nel risolvere i problemi più profondi dell’esistenza umana.
L’inconscio e l’intuizione: Gli Inferi possono rappresentare l’inconscio, un luogo oscuro e nascosto dove risiedono i ricordi e i desideri più profondi. Il viaggio di Orfeo potrebbe essere visto come un tentativo di esplorare e portare alla luce questi aspetti nascosti della psiche. La necessità di non guardare indietro può riflettere la fragile natura dell’intuizione e della conoscenza interiore, che può essere facilmente distrutta dal dubbio e dalla razionalità eccessiva.
L’amore e la fiducia: La condizione imposta ad Orfeo di non guardare indietro finché non escono dagli Inferi può essere interpretata come una prova di fiducia. Il suo fallimento nel mantenere questa fiducia rappresenta le difficoltà che spesso sorgono nelle relazioni umane, dove il dubbio e l’insicurezza possono minare anche i legami più forti.
Il tema della seconda possibilità: Orfeo ed Euridice rappresentano il desiderio umano di una seconda possibilità e la speranza di correggere gli errori passati. Tuttavia, il mito sottolinea anche che certe opportunità, una volta perse, non possono essere recuperate, riflettendo la realtà della irreversibilità di alcune scelte e azioni.
La separazione tra mondo terreno e ultraterreno: Il mito esplora la separazione tra la vita e la morte, tra il mondo terreno e quello ultraterreno. Orfeo cerca di superare questa barriera, ma alla fine fallisce, sottolineando la linea ineludibile tra la vita e la morte e la difficoltà di accettare questa separazione.
Identità e metamorfosi: Dopo la perdita definitiva di Euridice, Orfeo subisce una trasformazione personale, dedicandosi alla musica e diventando una figura quasi ascetica. Questo può rappresentare come eventi traumatici possano trasformare l’identità di una persona e portarla a nuovi modi di essere e di vivere.
Queste interpretazioni psicologiche del mito di Orfeo ed Euridice mostrano come questa antica storia possa riflettere le profonde verità e complessità dell’esperienza umana, dalla perdita e il lutto alla forza e ai limiti dell’amore e dell’arte.
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Molti miti greci contengono elementi che possono essere interpretati psicologicamente. Ecco alcuni esempi significativi:
Edipo: Il mito di Edipo, raccontato da Sofocle, è fondamentale nella psicologia, specialmente nella teoria di Sigmund Freud che ha formulato il complesso di Edipo. Il mito esplora temi di identità, destino e conflitto con le figure genitoriali.
Narciso: La storia di Narciso, che si innamora della propria immagine riflessa nell’acqua e muore a causa della sua ossessione, è spesso usata per discutere del narcisismo e dell’amore patologico verso se stessi.
Orfeo ed Euridice: Il mito di Orfeo, che cerca di riportare in vita la sua amata Euridice dall’oltretomba, affronta temi di perdita, lutto e il potere dell’amore e dell’arte. La sua incapacità di rispettare la condizione posta da Ade (non voltarsi a guardare Euridice) può essere vista come una metafora della difficoltà di lasciar andare il passato.
Perseo e Medusa: La storia di Perseo che sconfigge Medusa può essere interpretata come un simbolo del superamento delle paure e dei traumi. Medusa, con il suo aspetto terrificante, rappresenta il terrore che può paralizzare, mentre Perseo rappresenta l’eroe che, con l’aiuto degli dei, riesce a confrontarsi e superare queste paure.
Icaro e Dedalo: Il mito di Icaro e Dedalo esplora temi di ambizione, hybris (tracotanza) e le conseguenze della disobbedienza. Icaro, nonostante gli avvertimenti del padre Dedalo, vola troppo vicino al sole, facendo sciogliere la cera delle sue ali e precipitando nel mare. Questo mito è spesso interpretato come un avvertimento contro l’eccessiva ambizione e l’importanza di seguire la saggezza e la moderazione.
Eracle: Le dodici fatiche di Eracle possono essere viste come un viaggio di purificazione e crescita personale. Ogni fatica rappresenta una sfida da superare, simbolizzando il superamento di aspetti negativi della psiche e la ricerca della redenzione.
Psiche e Amore: Come menzionato prima, il mito di Psiche e Amore è ricco di significati psicologici legati alla crescita personale, l’amore, la fiducia e l’integrazione dell’inconscio.
Pandora: Il mito di Pandora, che apre il vaso (spesso erroneamente tradotto come “scatola”) liberando tutti i mali nel mondo ma lasciando dentro la speranza, riflette sulle conseguenze della curiosità e dell’azione impulsiva. Può anche essere visto come un’allegoria della condizione umana, in cui nonostante le difficoltà e le sofferenze, la speranza rimane.
Questi miti non solo raccontano storie affascinanti, ma attraverso le loro narrazioni, riflettono e illuminano le complessità della mente umana e delle esperienze psicologiche.
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Il mito di Amore e Psiche, presente nelle “Metamorfosi” di Apuleio, è ricco di significati psicologici che riflettono diverse tematiche umane. Ecco alcune interpretazioni principali:
Crescita e maturazione psicologica: La storia di Psiche rappresenta il viaggio di crescita e maturazione dell’anima umana. Psiche deve affrontare varie prove per riunirsi con Amore (Eros), simboleggiando le sfide e i sacrifici necessari per raggiungere una completa realizzazione personale e spirituale.
Amore e fiducia: Il mito esplora la complessità dell’amore, inclusi gli elementi di fiducia e tradimento. Psiche viene messa alla prova per la sua curiosità e mancanza di fiducia, ma alla fine il vero amore trionfa, insegnando che la fiducia reciproca è essenziale in una relazione.
Integrazione dell’inconscio: Alcuni psicologi vedono in questa storia un processo di integrazione delle parti inconsce della mente. Psiche, che significa “anima” in greco, deve conoscere e accettare aspetti oscuri e nascosti (rappresentati da Amore che si nasconde nell’oscurità) per raggiungere la completezza.
Rinascita e trasformazione: Le prove di Psiche possono essere viste come simboli di morte e rinascita. Ogni sfida rappresenta un passaggio verso una nuova fase della sua vita, culminando nella sua apoteosi come divinità, simbolizzando la trasformazione e l’elevazione dell’anima.
Conflitto tra anima e desiderio: Il mito rappresenta anche il conflitto tra il desiderio fisico (Eros) e l’anima (Psiche). Il viaggio di Psiche può essere visto come un’armonizzazione di questi due aspetti, suggerendo che l’equilibrio tra desiderio e spiritualità è fondamentale per l’armonia interiore.
Questi significati psicologici del mito di Amore e Psiche riflettono le profonde verità umane riguardanti l’amore, la crescita personale e spirituale, e l’integrazione degli aspetti diversi della psiche.
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Le persone trovano sempre le parole giuste, ma sbagliano l’accento. E vedo che preferiscono i prìncipi ai princìpi che si pèrdono sul perdòno, che vogliono tutto sùbito senza ricordare cosa hanno subìto che non gettano mai l’àncora ma ne vogliono sempre ancòra che desiderano le loro vite leggère ma non sanno lèggere negli occhi e ho capito che le persone trovano sempre le parole giuste, ma sbagliano l’accento.
(Gio Evan)
In questa bellissima poesia di Gio Evan viene espresso quella che è una degli errori principali nella comunicazione di coppia: sentire e voler comunicare le giuste parole ma sbagliarle nell’esprimerle. Sbagliare anche un semplice accento può cambiare il senso di una parola al pari di sbagliare una tonalità nel comunicare può cambiare il senso della comunicazione stessa. Scelta delle parole, tonalità nel comunicare ed, appunto, anche accento possono avvicinare l’altro come allontanarlo.
Come affermava il sociologo Bauman: ‘Il fallimento di una relazione è quasi sempre un fallimento di comunicazione‘
In questo brano del grande poeta Whitmann viene descritta una coppia che si ritrova, dopo essersi lasciati e si rendono conto di essersi amati e di non averlo compreso a suo tempo. La sequenza della conversazione è di una significatività incredibile nel descrivere le sensazioni che entrambi rievocano e continuano a provare. Da leggere attentamente
Ti sei fatta crescere i capelli. – Così pare. – Ce li avevi corti quando stavi con me. – Lo so. – Stai bene, comunque. – Grazie. – Sei proprio bella. – Non dovresti dirmelo. Sono la tua ex. – Posso dirtelo. Ti ho amato. Sul suo viso comparve una smorfia: – Mi hai amato solo perché sono bella? – No, affatto. Ti ho amato perché… in realtà non lo so perché. – Come sarebbe a dire che non sai perché? – Che tu eri… non lo so. Ci fu un attimo di silenzio, poi lei finalmente sorrise: – Io ti amavo. Tu non l’hai mai capito ma io ti amavo. – Tu non me l’hai mai detto. – Hai ragione. Ti ho detto molte altre cose ma non quella. – Mi hai detto che ero un coglione, che ti trattavo male, che ero immaturo… Sbuffò:- Dio mio, lo sai che non lo pensavo davvero. – E che pensavi davvero? – Che eri fantastico. Avevi quel modo tutto tuo di vedere le cose e io amavo quel tuo modo di vedere le cose. Eri adorabile quando mi sorridevi dall’altra parte della strada e quando mi accarezzavi la guancia appena mi vedevi giù di morale. Eri dolcissimo quando mi permettevi di stare tra le tue braccia e sai io odiavo sentirmi piccola ma quando mi stringevi mi sentivo minuscola e stavo comunque benissimo nei tuoi abbracci ed eri straordinario quando stavi ad ascoltare le mie paturnie sconnesse come stai facendo ora… Si fermò per un istante con le lacrime agli occhi, poi lo guardò e la voce le tremava mentre pronunciava quelle parole: – E come ora mi sorridevi. Solo che poi mi baciavi e mi dicevi che andava tutto bene. Fu un attimo. Un attimo in cui lui la baciò. E le disse: Va tutto bene. Lei fece un respiro profondo. – Non avresti dovuto farlo. Sono la tua ex. – Sai perché ti ho amato? – No. – Perché era impossibile non farlo. Eri qualcosa che non riuscivo a capire e quando ci provavo mi perdevo. E quando mi perdevo trovavo i tuoi occhi e loro mi guardavano sempre con un amore sconfinato, non importava quanto io fossi stronzo o quanto ti facessi incazzare o piangere, i tuoi occhi continuavano sempre ad amarmi. Io ti amavo perché eri forte, piccola. Tu pensavi sempre che fossi io a proteggere te e invece eri tu a proteggere me. Io non ti ho mai protetto. E tu non hai idea… non hai idea di quante volte mi sono odiato. Mi sono odiato tutte le volte in cui non ti difendevo e non ti dicevo di amarti. Tu non mi dicevi di amarmi ma io sapevo che mi amavi. Io non ti dicevo di amarti ma ti amavo. Tu lo sapevi? Il sorriso della donna era triste: No. – Ma ti amavo. Davvero. – Se l’avessi saputo non mi sarei arresa con te. – Quindi adesso saremmo ancora insieme? – Io sono ancora con te. – Ma stai con lui. – E tu stai con lei. – Ma sono con te. Lei sospirò: Non fa niente. Siamo andati oltre il nostro amore. – Non lo so. Siamo ancora qui. – Non siamo più quelli che eravamo. – Hai ragione. Hai i capelli più lunghi. Finalmente lei rise. E lui non riuscì a non dirglielo: Il tuo sorriso è sempre lo stesso, però. Il suo sguardo si fece serio in quello di lui: Anche la tua capacità di farmi sorridere è sempre la stessa. – Vuoi sapere la verità? – Sì. – Anche il mio amore per te è rimasto lo stesso. – Vuoi sapere la verità? – Sì. – Li vedi i miei occhi? Si guardarono. – Li vedo. – Non lo capisci? – Che cosa? – Hai detto che ti guardavano con un amore sconfinato. – Sì. – Neanche loro sono cambiati. Ti stanno guardando ancora così.
Questa favola di Hermann Hesse descrive, attraverso l’uso della metafora dell’albero, che ogni forma diventa completa se si unisce ad un altra. Si può vivere benissimo da soli ma prima o poi ci si confronta con la mancanza di una persona da amare che permette di completare la nostra esistenza.
Piktor era appena entrato in Paradiso, quando si trovò di fronte ad un albero, che era nel contempo uomo e donna. Piktor salutò l’albero con riverenza e gli chiese: “ Sei tu l’Albero della Vita?” Siccome, tuttavia, il serpente pretendeva di rispondergli al posto dell’albero, egli volse le spalle e se ne andò. Era tutto occhi, gli piaceva tutto così tanto. Percepiva chiaramente di trovarsi a casa sua, presso la sorgente della vita. E di nuovo vide un albero, che era nel contempo sole e luna. Piktor disse: “Sei tu l’albero della vita?”.
Il sole annuì e rise, la luna annuì e sorrise. I fiori più meravigliosi lo guardarono, con svariati colori e luce, con occhi e visi diversi. Alcuni annuivano e ridevano, altri annuivano e sorridevano, altri ancora né annuivano, né sorridevano. Tacevano ebbri, immersi in se stessi, come affogando nel proprio profumo. Uno cantava il canto lillà, un altro cantava la ninnananna blu scura. Uno dei fiori aveva grandi occhi blu, un altro gli ricordava il suo primo amore. Uno odorava di giardino dell’infanzia, come la voce della madre, il suo dolce buon odore. Un altro gli sorrideva e tendeva verso di lui una curva lingua rossa. Lui la leccò, essa aveva un sapore forte e selvaggio, sapeva di resina e miele e anche del bacio di una donna. Tra tutti i fiori Piktor s’aggirava pieno di nostalgia e gioia inquieta. Come se fosse una campana, il suo cuore batteva forte; bramava l’ignoto, incerto era il suo desiderio. Piktor vide un uccello, lo vide seduto nell’erba, raggiante di colori, sembrava che possedesse tutti i colori. Chiese al bell’ uccello variopinto: “ Oh uccello, dov’è la felicità?” “La felicità?”, rispose il bell’uccello e rise con il suo becco dorato, ” la felicità, amico mio, è dappertutto, nelle montagne e nelle valli, nei fiori e nei cristalli.
Con queste parole l’uccello felice scosse le sue piume, tirò il collo, agitò la coda, strizzò l’occhio, rise di nuovo, poi rimase seduto immobile, seduto tranquillamente nell’erba, ed ecco: l’uccello era diventato un fiore colorato, piume, foglie, artigli e radici. Nella brillantezza dei colori, danzando, divenne una pianta. Piktor lo guardò con meraviglia. Subito dopo il fiore uccello mosse le sue foglie e gli stami, già si era stancato di essere un fiore, non aveva più radici, si moveva leggero, pendeva lentamente all’insù e già – era diventato una splendente farfalla, che si cullava sospesa, senza peso, tutta luce, con un viso completamente luminoso. Piktor si stupì molto.
Ma la nuova farfalla, la gioiosa e variopinta farfalla uccello fiore con il volto colorato e luminoso volava in cerchio attorno a Piktor, brillò al sole, si fece cadere a terra come un fiocco, rimase ferma davanti ai piedi di Piktor, respirò delicata, tremò un po’ con le ali splendenti, ed ecco che si trasformò in un cristallo colorato, dal quale brillava una luce rossa. La rossa pietra preziosa splendeva meravigliosamente tra l’erba verde e le piante, chiara come delle campane in festa. Il suo regno, però, la profondità della terra, sembrava che la chiamasse; velocemente cominciò a diventare sempre più piccola, minacciando perfino di sparire. Allora Piktor, spinto da un insaziabile desiderio, si avvicinò alla pietra e la portò a sé. Con entusiasmo, egli fissò lo sguardo nella sua luce magica che sembrava riempirgli il cuore con un presentimento di beatitudine. All’improvviso, strisciando sul ramo di un albero secco, il serpente gli sibilò nell’orecchio: “La pietra si trasforma in tutto ciò che vuoi. Svelto, dille il tuo desiderio, prima che sia troppo tardi! Piktor si spaventò, temendo di perdere la sua felicità. Velocemente disse la parola e si trasformò in un albero. Ecco, proprio questo aveva desiderato da sempre, essere un albero. Gli alberi sembravano così pieni di calma, forza e dignità. Piktor era diventato un albero. Crebbe con le radici nella terra, si alzò verso il cielo, foglie e rami crescevano dalle sue membra e lui fu molto soddisfatto di ciò.
Egli era molto felice. Succhiò con fibre assetate profonde nella terra fresca e soffiava con le sue foglie in alto nel blu. I coleotteri vivevano nella sua corteccia, ai suoi piedi vivevano lepri e tartarughe, nei suoi rami gli uccelli. L’albero Piktor era contento e non contava gli anni che passavano. Passarono molti anni prima di rendersi conto che la sua felicità non era perfetta. Lentamente imparò a vedere con gli occhi da albero. Alla fine si vide e diventò triste.
Infatti, egli vide che intorno a lui, in paradiso, la maggior parte degli esseri si trasformava molto spesso, che tutto scorreva in un flusso incantato di perenni trasformazioni. Vide i fiori diventare pietre preziose o volare via come folgoranti colibrì. Vide accanto a sé più di un albero scomparire all’improvviso: uno si era sciolto in una fonte, un altro era diventato un coccodrillo, un altro ancora nuotava fresco e contento con grande piacere, come un pesce allegro guizzando, inventando nuovi giochi in nuove forme. Elefanti prendevano la veste di rocce, giraffe la forma di fiori. Lui invece, l’albero di Piktor, rimaneva sempre lo stesso, non poteva più trasformarsi. Dal momento in cui scoprì questo, la sua felicità svanì: cominciò ad invecchiare e assunse sempre più quell’aspetto stanco, serio e afflitto, che si può osservare in molti vecchi alberi. Lo si può vedere tutti i giorni anche nei cavalli, negli uccelli, negli uomini e in tutti gli esseri: Quando non possiedono più il dono della trasformazione, prima o poi sprofondano nella tristezza e nell’abbattimento, e perdono ogni bellezza. Un bel giorno, una fanciulla dai capelli biondi e dal vestito azzurro si perse in quella parte del Paradiso. Correva tra gli alberi e prima di allora non aveva mai pensato di desiderare il dono della trasformazione. Più di una furba scimmia sorrise alle sue spalle, più di un cespuglio la sfiorò teneramente con un virgulto, più di un albero le gettò un fiore, una noce, una mela senza che lei vi badasse. Quando l’albero Piktor vide la fanciulla, sentì una grande nostalgia, un desiderio di felicità come non gli era ancora mai accaduto. E allo stesso tempo cominciò a riflettere, era come se il suo stesso sangue gli gridasse: “Ritorna in te ! Ricordati in questa ora di tutta la tua vita, trovane il senso, altrimenti sarà troppo tardi e non ti sarà più data alcuna felicità. Ed egli obbedì. Si ricordò delle sue origini, dei suoi anni da uomo, del suo ingresso nel Paradiso, e specialmente di quell’attimo, prima che diventasse un albero, quell’attimo meraviglioso in cui aveva tenuto in mano la pietra magica. Allora, mentre ogni cambiamento gli era aperto, la vita era stata ardente in lui come non mai! Egli pensò all’uccello, che aveva riso, all’albero con il sole e la luna; gli venne l’idea che aveva omesso qualcosa, dimenticato qualcosa, e che il consiglio del serpente non era stato buono.
La ragazza sentì un fruscio tra le foglie dell’albero Pictor, alzò lo sguardo e sentì muoversi dentro di lei, con un improvviso dolore al cuore, nuovi pensieri,nuovi desideri, nuovi sogni. Attratta da una forza sconosciuta si sedette sotto l’albero. Esso le appariva solitario e triste, ma anche bello, commovente e nobile nella sua muta tristezza; era incantata dalla canzone che sussurrava lieve la sua chioma. Si appoggiò al suo tronco ruvido e sentì l’albero rabbrividire profondamente. Sentì lo stesso brivido nel proprio cuore. Il suo cuore era stranamente dolente, nel cielo della sua anima scorrevano nuvole, dai suoi occhi cadevano lentamente pesanti lacrime. Cosa stava succedendo? Perché doveva soffrire così? Perché il suo cuore voleva spaccare il petto e andare a fondersi con lui, con esso, con il bel solitario?
L’albero tremò silenzioso fin nelle radici, tanto intensamente raccoglieva in sé ogni forza vitale e si protendeva verso la ragazza in un ardente desiderio di unione. Perché si era lasciato raggirare dal serpente per essere confinato così per sempre solo in un albero! Oh come era stato cieco, come era stato stolto! Davvero, allora sapeva così poco, davvero era stato così lontano dal segreto della vita? No, anche allora l’aveva oscuramente sentito e presagito e con dolore e profonda comprensione pensò ora all’albero che era fatto di uomo e di donna! Un uccello rosso venne volando, un uccello verde e rosso, un uccello ardito e bello, descriveva nel cielo un cerchio. La fanciulla lo vide volare, vide cadere dal suo becco qualcosa che brillò di rosso come il sangue rosso, come la brace, cadde tra le verdi piante e splendette di tanta familiarità tra le verdi piante. Il richiamo squillante della sua rossa luce era tanto intenso che la fanciulla si chinò e sollevò quel rossore. Ed ecco che era un cristallo, un rubino ed intorno ad esso non ci poteva essere oscurità.
Non appena la fanciulla ebbe la pietra fatata nella sua bianca mano, si avverò il sogno che le aveva riempito il cuore. La bella fu presa, svanì e divenne tutt’uno con l’albero, si affacciò dal suo tronco come un robusto giovane ramo che rapido si innalzò verso di lui. Ora tutto era a posto, il mondo era in ordine solo ora era stato trovato il paradiso. Piktor non era più un vecchio albero intristito, ora cantava forte Piktoria, Viktoria. Egli fu trasformato. Perché questa volta aveva raggiunto la giusta, l’eterna trasformazione, perché da una metà era diventato l’intero. D’ora in poi avrebbe potuto trasformarsi quanto volesse. Continuamente scorreva il flusso incantato del divenire attraverso il suo sangue, eternamente prendeva parte al creato che sorgeva ogni ora nuovo. Egli diventò capriolo, diventò pesce, diventò uomo e serpente, nuvola e uccello. Ma in ogni forma era completo, era una coppia, aveva la luna e il sole, aveva in sé il maschio e la femmina, scorreva come un fiume gemello attraverso le terre, stava come una duplice stella nel cielo.
In questa bellissima poesia dello scrittore scomparso Luis Sepùlveda è raccontata una storia d’amore sotto forma di riflessioni poetiche. Da leggere attentamente. Ho evidenziato gli aspetti più salienti.
L’ultima nota del tuo addio mi disse che non sapevo nulla e che arrivavo al tempo necessario di imparare i perchè della materia. Così, fra pietra e pietra seppi che sommare è unire e che sottrarre ci lascia soli e vuoti. Che i colori riflettono l’ingenua volontà dell’occhio. Che i solfeggi e i sol raddoppiano la fame dell’orecchio Che è la strada e la polvere la ragione dei passi.
Che la via più breve fra due punti è il giro che li unisce in un abbraccio sorpreso.
Che due più due può essere un pezzo di Vivaldi. Che i geni gentili stanno nelle bottiglie di buon vino.
Una volta imparato tutto questo tornai a disfare l’eco del tuo addio e al suo posto palpitante scrissi la Più Bella Storia d’Amore ma, come dice l’adagio, non si finisce mai d’imparare e aver dubbi.
Così, ancora una volta facilmente come nasce una rosa o si morde la coda un a stella cadente, seppi che la mia opera era scritta perchè La Più Bella Storia d’Amore è possibile solo nella serena e inquietante calligrafia dei tuoi occhi
Il seguente brano di Oriana Fallaci descrive in maniera significativa il vissuto emotivo e psicologico della fine di un amore. Da leggere attentamente.
“La morte di un amore è come la morte d’una persona amata. Lascia lo stesso strazio, lo stesso vuoto, lo stesso rifiuto di rassegnarti a quel vuoto. Perfino se l’hai attesa, causata, voluta per autodifesa o buonsenso o bisogno di libertà, quando arriva ti senti invalido. Mutilato. Ti sembra d’essere rimasto con un occhio solo, un orecchio solo, un polmone solo, un braccio solo, una gamba sola, il cervello dimezzato, e non fai che invocare la metà perduta di te stesso: colui o …colei con cui ti sentivi intero. Nel farlo non ricordi nemmeno le sue colpe, i tormenti che ti inflisse, le sofferenze che ti impose. Il rimpianto ti consegna la memoria d’una persona pregevole anzi straordinaria, d’un tesoro unico al mondo, nè serve a nulla dirsi che ciò è un’offesa alla logica, un insulto all’intelligenza, un masochismo. (In amore la logica non serve, l’intelligenza non giova e il masochismo raggiunge vette da psichiatria.) Poi, un po’ per volta, ti passa. Magari senza che tu sia consapevole lo strazio si smorza, si dissolve, il vuoto diminuisce e il rifiuto di rassegnarti ad esso scompare. Ti rendi finalmente conto che l’oggetto del tuo amore morto non era nè una persona pregevole anzi straordinaria, nè un tesoro unico al mondo, lo sostituisci con un’altra metà o supposta metà di te stesso e per un certo periodo recuperi la tua interezza. Però sull’anima rimane uno sfregio che la imbruttisce, un livido nero che la deturpa e ti accorgi di non essere più quello o quella che eri prima del lutto. La tua energia si è infiacchita, la tua curiosità si è affievolita e la tua fiducia nel futuro s’è spenta perchè hai scoperto d’aver sprecato un pezzo d’esistenza che nessuno ti rimborserà. Ecco perchè, anche se un amore langue senza rimedio, lo curi e ti sforzi di guarirlo. Ecco perchè, anche se in stato di coma boccheggia, cerchi di rinviare l’istante in cui esalerà l’ultimo respiro: lo trattieni e in silenzio lo supplichi di vivere ancora un giorno, un’ora, un minuto. Ecco infine perché , anche quando smette di respirare, esiti a seppellirlo o addirittura tenti di resuscitarlo. Alzati Lazzaro e cammina. “
Nel brano della scrittrice Jaime Sabines che riporto di seguito, viene descritto, con tratti anche dissacranti, una modalità per guarire da un amore malsano. Si può essere più o meno d’accordo col contenuto ma ritengo che sia un utile spunto di riflessione.
“Spero di riuscire a guarire da te, uno di questi giorni.
Devo smettere di fumarti, di berti, di pensarti. È possibile. Seguendo le prescrizioni della morale di turno. Mi prescrivo tempo, astinenza, solitudine.
Ti va bene se ti amo solo una settimana? Non è molto né poco, è abbastanza. In una settimana si possono riunire tutte le parole d’amore che sono state dette sulla terra e gli si può dare fuoco. Ti scalderò con quel falò dell’amore bruciato. E anche il silenzio. Perché le parole d’amore più belle si trovano tra le persone che non si dicono niente.
Bisogna bruciare anche quell’altro linguaggio laterale e sovversivo di chi ama. ( Tu sai come ti dico che ti amo quando ti dico: «Che caldo che fa», «Dammi l’acqua», «Sai guidare?», «Si è fatta notte»…Tra le persone, in mezzo alla tua famiglia e alla mia, ti ho detto «Si è fatto tardi», e tu sapevi che ti dicevo «Ti amo»).
Un’altra settimana per mettere insieme tutto l’amore del tempo. Per dartelo. Perché tu ne faccia quello che vuoi: conservarlo, accarezzarlo, buttarlo nell’immondizia. Non serve, è vero. Voglio solo una settimana per capire le cose. Perché tutto questo è molto simile a uscire da un manicomio per entrare in un cimitero.”
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