A molti di noi è capitato di vivere un amore non corrisposto: di esserci innamorati di qualcuno che ci ha respinto. Possiamo aver accusato il colpo, provando una sofferenza superficiale, simile a un taglio fatto con la carta che dopo poco tempo guarisce, senza lasciare alcuna cicatrice. Oppure il rifiuto può averci riaperto una ferita dolorosa e profonda che ben conosciamo: se durante l’infanzia un famigliare ha adottato un atteggiamento rifiutante nei nostri confronti o crescendo alcuni partner ci hanno allontanato è molto più faticoso metabolizzare l’accaduto.
Dopo essere stati respinti è come se nella nostra mente si installasse un filtro che condiziona i nostri pensieri e i nostri comportamenti: metterci in relazione con gli altri diventa complesso. Per esempio possiamo essere inclini a cercare costantemente l’approvazione e il riconoscimento da parte delle altre persone e parallelamente sviluppare una vulnerabilità ad ogni commento e critica negativa che riceviamo. Possiamo fraintendere una gentilezza di un amico/a per un suo interesse romantico oppure sentirci respinti anche quando in realtà non lo siamo, scappando per primi. Possiamo cercare di compensare il profondo senso di solitudine e il bisogno di affetto che proviamo, volendo a tutti i costi una relazione, anche con qualcuno a cui non interessiamo o che non può darci quello che vorremmo per mancanza di compatibilità o perché già impegnato in una relazione. In alcuni casi, per la sua indisponibilità, lo/a idealizziamo e diventa per noi irresistibile, una vera e propria ossessione. Nonostante la quotidiana dose di frustrazione e dolore nutriamo una speranza incrollabile che prima o poi lo/a convertiremo al nostro amore. Scegliamo quel legame ad ogni costo per non sentirci senza valore come in passato anche se realisticamente è una relazione che non ha presente né futuro, in cui sostanzialmente replichiamo un copione che ci è famigliare e da cui non sappiamo uscire.
Le ferite psicologiche che conseguono ad un rifiuto non vanno fatte “infettare” perché rischiamo di sviluppare una sintomatologia di tipo depressivo.
Quando veniamo respinti, la nostra ragione non riesce a prendere le distanze dalla sofferenza che ne consegue. Proviamo una forte tristezza, ansia, disagio, senso di vuoto e/o rabbia che in rari casi può innescare gravi forme di aggressività, eterodiretta o autodiretta. Spesso la cronaca nera narra di partner respinti che cercano vendetta o che si fanno male.
Quando veniamo rifiutati immancabilmente sviluppiamo un atteggiamento estremamente autocritico, identificando tutti i nostri difetti e sviluppando la convinzione di essere inadeguati (per esempio “non sono abbastanza interessante per lui/lei”) arrivando a credere che vivremo sempre la stessa situazione (“nessuno mi amerà mai perché non sono interessante per nessuno”).
Riesaminiamo ogni istante della relazione alla ricerca del passo falso che abbiamo commesso (“non avrei mai dovuto…”), colpevolizzandoci e idealizzando l’altro come perfetto, unico a poterci salvare e che può legittimare il nostro valore. La convinzione profonda che sviluppiamo è: se avessimo fatto qualcosa di diverso avremmo potuto realizzare il nostro sogno d’amore.
Quando la nostra autostima comincia a sgretolarsi parallelamente iniziamo a costruirci (più o meno consapevolmente) una corazza per evitare di rivivere la sofferenza che abbiamo già provato. Iniziamo a isolarci, a fuggire dagli altri, alterando il nostro naturale senso di appartenenza.
Tutti questi pensieri e comportamenti in realtà non fanno altro che aumentare il nostro dolore, come se gettassimo sale sulla ferita.
Quando una persona che non ci vuole afferma: “non dipende da te, ma da me” è l’assoluta verità: non le interessiamo e semplicemente il suo volere va accettato. Se non ce lo dice, come nel caso del ghosting è una verità ancora più incontrovertibile oltre che una grande fortuna perché ci ha mostrato, dileguandosi, tutta la sua immaturità affettiva.
L’amore è un magico incontro in cui si allineano bisogni infantili, desideri, attrazioni fisiche e mentali, complicità emotive, stili di vita, aspettative e progettualità.
Veniamo respinti quando l’altro ritiene che non è possibile far combaciare questi aspetti tra di noi.
Io lo so, lo so che sbaglio. Sbaglio nel dirti che mi manchi, che ho voglia di fare l’amore con te, che ho voglia di dormire accanto a te, di baciarti tutta la notte. Sbaglio quando vorrei non chiamarti ma poi alzo la cornetta e lascio squillare. Sbaglio quando non voglio cercarti con un messaggio e poi lo scrivo e magari ci metto anche che ti penso. Ma non mi riesce di stare zitta. Mi sforzo, cambio discorso e a volte dico anche cose insensate, ma finisce sempre allo stesso modo: devo dartelo il mio amore, e l’unico modo che conosco sono queste parole. Il ‘devi tenerlo sulle spine’ per me non ha senso. Credo che siano proprio le parole che ti sforzi di non dire quelle che vengono fuori prima di tante altre, sei costretta a sputarle, a cacciarle via, a liberartene. Quindi se c’è una cosa che so dire davvero bene è che ti amo, e lo so che sembra banale e uguale tanti altri milioni di ti amo, per questo poi lo farcisco di sicurezze e di gesti, per questo poi te lo ripeto all’infinito, per questo adesso sembro una logorroica romantica del cavolo, per questo non riesco a smettere di scrivere. Sarei capace di usare tutte le parole del mondo pur di rendere bene il concetto che anche se sbaglio, sbaglio bene.
E. Calandrini
Nel sopracitato brano l’autrice sposa la tesi che il “trattenersi in amore” non è possibile, che prima o poi le parole legate ai sentimenti profondi che si provono vengono fuori. Quindi la strategia del “tenere sulle spine” è perdente nel medio e lungo periodo.
Professionalmente sono del parere che dipende dalle situazioni e dalla relazioni, In situazioni e relazioni normali si può essere se stessi fino in fondo nell’esprimere i propri sentimenti attraverso emozioni e parole.
In relazioni malsane o in cui c’è mancanza di reciprocità l’ostinarsi ad esprimere emozioni e parole è inutile ed anche dannoso perchè potrebbe denotare un atteggiamento ossessivo e una mancata volontà di prendere atto del reale stato della relazione.
Carmen Consoli nella canzone “Amori di Plastica” descrive quegli amori dove non esiste, rispetto, reciprocità, attenzione verso la persona amata. Allo stesso tempo il testo della canzone suggerisce la possibile terapia quando afferma ” Ma io non posso accontentarmi Se tutto quello che sai darmi È un amore di plastica “ Anche se nella realtà , talvolta, si ha difficoltà a buttare via un amore di plastica. Invece è necessario andare alla ricerca di amori composti da “materiali” più pregiati.
Non sei per nulla obbligato a comprendermi Quasi non sento il bisogno d’insistere E tu che mi offrivi un amore di plastica Ti sei mai chiesto se onesto era illudermi Ricorda tu sei quello che non c’è Quando io piango E tu sei quello che non sa Quando è il mio compleanno Quando vago nel buio Ma come posso dare l’anima e riuscire a credere Che tutto sia più o meno facile Quando è impossibile Volevo essere più forte di ogni tua perplessità Ma io non posso accontentarmi Se tutto quello che sai darmi È un amore di plastica E tu sei quel fuoco che stenta ad accendersi Non hai più scuse eppure sai confondermi Ricorda tu sei quello che non c’è Quando io piango E tu sei quello che non sa Quando è il mio compleanno Quando vago nel buioMa come posso dare l’anima e riuscire a credere Che tutto sia più o meno facile quando è impossibile Volevo essere più forte di ogni tua perplessità Ma io non posso accontentarmi Se tutto quello che sai darmi È un amore di plastica Volevo essere più forte di ogni tua perplessità Ma io non posso accontentarmi Se tutto quello che sai darmi È un amore di plastica Ma io non posso accontentarmi Se tutto quello che sai darmi È un amore di plastica
L’Alchimista conosceva la leggenda di Narciso, un bel giovane che tutti i giorni andava a contemplare la propria bellezza in un lago. Era talmente affascinato da se stesso che un giorno scivolò e morì annegato. Nel punto in cui cadde nacque un fiore, che fu chiamato narciso. Ma non era così che Oscar Wilde concludeva la storia. Egli narrava invece che, quando Narciso morì, accorsero le Oreadi – ninfe del bosco – e videro il lago trasformato da una pozza di acqua dolce in una brocca di lacrime salate. “Perché piangi?” domandarono le Oreadi. “Piango per Narciso” disse il lago. “Non ci stupisce che tu pianga per Narciso,” soggiunsero. “Infatti, mentre noi tutte lo abbiamo sempre rincorso per il bosco, tu eri l’unico ad avere la possibilità di contemplare da vicino la sua bellezza. ” “Ma Narciso era bello?” domandò il lago. “Chi altri meglio di te potrebbe saperlo?” risposero, sorprese, le Oreadi. “In fin dei conti, era sulle tue sponde che Narciso si sporgeva tutti i giorni.” Il lago rimase per un po’ in silenzio. Infine disse: “Io piango per Narciso, ma non mi ero mai accorto che fosse bello. Piango per Narciso perché, tutte le volte che lui si sdraiava sulle mie sponde, io potevo vedere riflessa nel fondo dei suoi occhi la mia bellezza.” “Che bella storia,” disse l’Alchimista.
Tra Aprile e Maggio, sui Monti, in piena primavera, fiorisce il NARCISSUS POETICUS o Narciso dei Poeti. Il nome deriva dal greco Narcissus che significa torpore, stordimento narcolessia, perchè il suo intenso profumo è piuttosto inebriante. A questo fiore è legato anche il mito di Narciso, famoso per la sua bellezza, che disdegnava ogni persona che lo amava. A seguito di una punizione divina per la sua cattiveria inflitta da Nemesi, si innamora della sua stessa immagine che vedeva riflesso in uno stagno. Il giovane Narciso quando comprese che non poteva mai ottenere quell’amore si lasciò morire. Quando le Ninfe presero il suo corpo ormai senza vita per portarlo al rogo funebre su quel luogo trovarono dei fiori bianchi dall’intenso profumo.
Questo fiore non è solo legato alla mitologia greca ma se si analizza il nome ed il significato greco scopriamo che il termine narcotico deriva proprio dal nome e dalla relazione con il suo forte profumo.
Ma da contraltare alla sua bellezza e profumo c’è la caratteristica che è una pianta tossica e le sue proprietà sono emetiche (spasmi e vomito) e purgative (dissenteria).
Come non vedere, in questa sede, un’analogia con la personalità Narcisistica. Tale personalità inebria, stordice col fascino che tende ad emanare al pari dell’omonimo fiore. Ma allo stesso tempo è una personalità tossica che arreca sofferenza se si entra in relazione più o meno profonda e duratura con essa, così come diviene tossico il fiore se viene assunto.
Nel terzo millennio, l’amore ha acquisito una dimensione virtuale, complementare ed equivalente a quella reale. Da un paio di decenni, social network, servizi di messaggistica e dating app hanno trasformato il modo di conoscersi, interagire, corteggiarsi, innamorarsi e vivere le relazioni affettive. Se da un lato hanno facilitato la socializzazione e il raggiungimento di una ininterrotta intimità emotiva, dall’altro hanno dato vita a nuovi fenomeni, tra i quali è importante sapersi orientare. Mi riferisco al benching, al mosting, al ghosting, al caspering, allo zombieing, all’orbiting e all’haunting.
Il BENCHING
si verifica quando una persona evita ogni chiarimento sulla natura delle
proprie intenzioni e dei propri sentimenti. Lascia l’altro nell’incertezza di
un possibile interesse, lo tiene in sospeso, in panchina (in inglese “bench”).
Non vuole impegnarsi in alcun rapporto e spesso ha più frequentazioni
contemporaneamente. Chi subisce il benching, vive nell’attesa di un messaggio,
di una telefonata o di un invito, che arriva molto sporadicamente.
Al contrario, chi mette in pratica il MOSTING
(dal termine inglese “most”, che significa “più”) manifesta un grande coinvolgimento e
interesse per una relazione. E’ un gran adulatore, fa sentire il partner unico,
speciale e lo illude circa possibili sviluppi del rapporto, che però non si
realizzeranno mai. Le promesse che fa si riveleranno presto false, perché
all’improvviso si dileguerà, senza dare spiegazioni.
Esattamente come chi fa GHOSTING(dal
termine inglese “ghost”, che significa fantasma) che è solito scomparire
nel nulla, senza fornire motivazioni e senza farsi alcun scrupolo. Tuttavia
rispetto al mosting è meno presente la componente illusoria. Le vittime di
entrambi questi fenomeni si trovano ad affrontare un dolore intenso e
inaspettato, dato dall’abbandono subito, a cui non riescono a dare un senso.
Un’altra
variante del ghosting è il CASPERING (da “casper” il
fantasmino protagonista del celebre film): dopo aver mostrato un iniziale
coinvolgimento, un partner inizia ad allontanarsi assumendo un atteggiamento
sempre più freddo e sempre più distaccato, per poi arrivare a svanire nel nulla
dopo un semplice messaggio di circostanza.
Una
possibile evoluzione del ghosting è lo ZOMBIEING. A
distanza di mesi, pochi o molti che siano, il ghoster riappare all’improvviso
(resuscita come uno “zombie” dal mondo dei morti) con l’intenzione
di riavvicinarsi. Può contattare l’ex
sul cellulare oppure rifarsi vivo con alcune interazioni sui social. Per lui,
cercare di riconquistare
una seconda volta la stessa persona, entrare e uscire a piacimento dalla sua
vita, è una sfida eccitante, gratificante che gli conferisce potere,
senso di possesso e conferma personale. La vittima di ghosting,
al contrario sviluppa un conflitto interiore: da un lato desidera fortemente
dare all’ex partner un’altra occasione perché ne ha sognato a lungo il ritorno;
dall’altro sente di dover chiudere definitivamente il rapporto perché non si
fida più e teme di essere nuovamente abbandonata.
Oppure
il ghoster ritorna e inizia ad alimentare la vecchia relazione con briciole di
messaggi o interazioni sui social, in maniera più occasionale rispetto allo zombieng.
Pratica quello che viene definito il BREADCRUMBING (dalla parole inglese
“breadcrumbs”che significa “briciole di pane”). Egoisticamente vuole riaffacciarsi nella vita dell’ex,
mandando segnali circa un possibile ritorno di fiamma, non avendo in realtà
nessuna intenzione di costruire un rapporto stabile. Crea dunque false
illusioni.
Allo
stesso modo, chi fa ORBITING (dalla parola inglese “to orbit” che
tradotto significa orbitare) non vuole chiudere definitivamente la relazione
precedente e ricomincia a seguire la vita dell’ex sui social mettendo qualche like, guardando le sue
storie o gli stati di whatsapp. Mostra interesse, attenzione e presenza, ma non
cerca mai un contatto diretto come chi mette in atto lo zombieing. Si
comporta come fanno i pianeti, che fluiscono lungo le loro orbite, attorno a un
punto senza mai toccarlo né abbandonarlo. Vuole mantenere una qualche forma di
contatto e di controllo, di modo che, qualora in futuro lo desiderasse
nuovamente, potrebbe riaprire una porta mai chiusa.
Simile
all’orbiting e’ il fenomeno dell’HAUNTING (traduzione dall’inglese “chi
perseguita”). Una precedente frequentazione diventa una presenza virtuale che
occasionalmente spia il profilo, le foto, le storie, gli stati di whatsapp
o mette qualche like o cuoricino, per
poi scomparire e riapparire continuamente. Nel tempo va e viene a suo
piacimento, creando una sorta di persecuzione.
Tipicamente tutti questi fenomeni sono messi
in atto da individui che possiedono dei tratti narcisistici, istrionici,
evitanti, borderline o dei veri e propri disturbi di personalità. Appaiono, scompaiono,
tornano o visualizzano, solo per il proprio interesse, per mantenere un certo
controllo sull’altro, incuranti degli stati d’animo che suscitano. Adottano
comportamenti manipolativi che testimoniano gravi difficoltà personali di tipo
emotivo, comunicativo e relazionale.
Questi
fenomeni virtuali appena illustrati ci mostrano come sia dilagante una
disconnessione affettiva degli altri e soprattutto da se stessi.
La mancanza è la
presenza più forte che si possa sentire
Inizio a parlare di amore
focalizzandomi sull’analisi di un fenomeno molto diffuso nel mondo digitale: il
ghosting, una pratica crudele utilizzata per troncare una relazione.
Il ghosting è ciò che accade
quando una persona termina un rapporto senza comunicare all’altro le proprie
intenzioni e i motivi della rottura: scompare nel nulla, diventa come un
fantasma (un “ghost”, da cui deriva il nome “ghosting”). Improvvisamente interrompe qualsiasi contatto, si
rende irreperibile: cancella il proprio
profilo dai social, blocca o toglie l’altro dalle proprie amicizie, non
risponde più alle sue telefonate, ai suoi messaggi, alle sue e-mail.
Il ghoster
(colui che fa ghosting), come un vero illusionista, si smaterializza e
magicamente fa svanire nel nulla la relazione e le proprie responsabilità. In
questo modo, evita le reazioni imprevedibili dell’altro e le emozioni negative
che vivrebbe di riflesso. Non vuole sentirsi giudicato colpevole del dolore e
della rabbia che provoca; scomparendo le elimina dalla propria percezione.
Vuole creare una distanza di sicurezza per se stesso, incurante degli stati
d’animo che induce nel partner. Quando la relazione è in essere da poco tempo si
sente addirittura giustificato a chiudere la storia senza dare spiegazioni.
Tipicamente questo accade nei social network e nelle dating app dove è
possibile chattare con più persone contemporaneamente e dove rapidamente un
rapporto può diventare insignificante.
Il ghosting
èuna facile via d’uscita anche per chi è solito usare false identità
virtuali: per timidezza, per insicurezza, per senso di inadeguatezza fisica
oppure perché la persona ha già un rapporto
stabile o addirittura una famiglia e internet è solo un’occasione di svago e
leggerezza. Quando l’altro con cui è in
contatto inizia a porre delle richieste per far evolvere il rapporto in un
qualcosa di più concreto, non potendosi mostrare per chi è veramente, scompare.
Altrettanto
crudelmente agisce il ghoster affetto da una grave patologia
narcisistica che intenzionalmente vuole far soffrire l’altro, infliggergli una
dolorosa punizione. Spesso questa violenza psicologica accade in quell’incastro
perfetto che crea con un partner che soffre di dipendenza affettiva. Con il ghosting,
si appropria di un grande potere: conoscendo la sua vittima, sa, che,
rendendosi invisibile, sarà ancora più desiderato e dunque amato, nonostante la
rottura.
Più
frequentemente, il ghoster è meno consapevole di se stesso. Pur potendo
vivere liberamente una storia d’amore ad un certo punto sente l’urgenza
improvvisa di troncare un rapporto, perché non riesce a sostenere una vera
vicinanza emotiva, in cui esprimere i propri bisogni e accogliere quelli
dell’altro. Inconsapevolmente, soffre di filofobia: un’incapacità di amare
probabilmente appresa in famiglia, quando era piccolo. Durante l’infanzia, può
aver sviluppato uno stile di attaccamento disfunzionale che lo porta a ritenere
salvifico scappare da una relazione anche quando è positiva. Può aver avuto un
genitore che senza fornire motivazioni, e’ stato poco presente o lo e’ stato in
maniera inconstante e l’ha fatto sentire solo, poco considerato, rifiutato o
abbandonato. Per esempio prometteva di esserci e poi non si presentava al
saggio di fine anno, alla partita di calcetto, alla festa di compleanno. Il ghoster
lascia per non essere lasciato, criticato, tradito, manipolato come purtroppo
gli e’ già capitato quando era bambino. Il partner diventa il capro espiatorio
di un dolore che si porta dentro da molto tempo e che spesso nemmeno sa di
avere.
In
generale si può affermare che il ghosting e’ un comportamento che mette
in luce la compresenza di alcune problematiche psicologiche tra: scarsa
empatia, immaturità, egocentrismo, insicurezza, difficoltà comunicative. Questi
sono aspetti caratteristici di chi possiede tratti patologici o un vero e
proprio disturbo di personalità (tipicamente evitante, narcisistico o
borderline), aspetti che necessiterebbero di un lavoro psicoterapeutico. Con la
speranza che “il fuggitivo” non ghosterizzi anche lo psicologo quando la
relazione terapeutica entra nel vivo.
Dopo la
fine della relazione, il ghoster continua la sua vita senza voltarsi
indietro. La vittima di ghosting si trova invece catapultata in un
labirinto di sofferenza e non senso. Viene invasa da una carica di emozioni
negative che si mescolano tra loro: disorientamento, tristezza, angoscia,
rabbia, impotenza, ansia, senso di abbandono e di vuoto.
Il
malessere che percepisce ricade anche sul corpo: la vittima può sperimentare
sensazioni spiacevoli, somatizzazioni, insonnia o disturbi dell’appetito.
Sensazioni che si aggiungono al suo sentirsi destabilizzata, sofferente, sola e
fragile.
L’essere
passata dal pieno di una relazione (fatta di presenza, connessioni emotive,
aspettative positive per il futuro), al silenzio assoluto che segue la
scomparsa del partner e’ fonte di un intenso stress emotivo, che può degenerare
in sintomi depressivi e ansiosi.
La sua
mente si riempie di rimuginazioni, di ricordi, di ipotesi, di
autocolpevolizzazioni. Chi subisce il ghosting si chiede continuamente tra sé e
sé: “Perché è scomparso? Cosa gli è successo? In che cosa ho sbagliato?”.
Per
trovare un senso all’accaduto, inizia una ricerca del ghoster in tutti i
modi che sono possibili, spesso connettendosi a lungo, sperando di poterlo
contattare. Ma ogni tentativo è vano e frustrante.
Fatalmente
la vittima si pensa inadeguata, “difettata”, non abbastanza amabile e la sua
autostima crolla. Inizia a dubitare del proprio valore, delle proprie capacità,
tra cui quella di non aver saputo valutare l’altro per quello che era in realtà
e di non aver avuto motivi abbastanza convincenti per tenerlo vicino. Prova un
forte senso di fallimento e sconfitta personale. Il ghoster l’ha
tagliata fuori dalla sua vita senza un perché, le ha mancato di rispetto, l’ha
usata per scopi che non riesce a capire. Il mondo, certo e felice fino a un
attimo prima, si trasforma per lei in un posto minaccioso e oscuro perché ha
perso la fiducia nell’altro, quale altro da se’.
Il ghosting
dimostra che il contrario dell’amore non è l’odio ma l’indifferenza: non poter
dare un senso alla propria sofferenza, impedisce di elaborare la perdita che segue una
separazione e guardare al futuro con speranza. Spesso la vittima deve riempire
da sola quel pezzo mancante, operazione non sempre facile da fare senza l’aiuto
di uno psicologo, soprattutto nel caso in cui soffra di dipendenza affettiva.
Se avete ghosterizzato qualcuno o siete stati vittima di ghosting e avete voglia di condividere con noi le vostre esperienze o riflessioni in merito a questo articolo, contattateci al 3355334721 oppure scriveteci una mail a uno di questi indirizzi: maggioli.roberta72@gmail.com oppure maggiolir@libero.it
“Quando giustifichiamo i suoi malumori, il suo cattivo carattere, la sua indifferenza, o li consideriamo conseguenze di un’infanzia infelice e cerchiamo di diventare la sua terapista, stiamo amando troppo.
Quando non ci piacciono il suo carattere, il suo modo di pensare e il suo comportamento, ma ci adattiamo pensando che se noi saremo abbastanza attraenti e affettuosi lui vorrà cambiar per amor nostro, stiamo amando troppo.
Quando la relazione con lui mette a repentaglio il nostro benessere emotivo, e forse anche la nostra salute e la nostra sicurezza, stiamo decisamente amando troppo.” (Robin Norwood)
La problematica della dipendenza affettiva è recente: nasce sull’onda del successo, negli anni ’70,di un libro della psicologa americana Robin Norwood “Donne che amano troppo”. Tracce di tale tipo di dipendenza si possono rinvenire anche prima, ad opera di altri studiosi. Lo psicanalista Fenichel nel 1945 nel libro Trattato di psicanalisi delle nevrosi e psicosi introduceva il termine amoredipendenti ad indicare persone che necessitano dell’amore come altri necessitano del cibo o della droga.
Nella dipendenza affettiva, l’amore verso l’altro presenta diverse caratteristiche delle dipendenze in generale, pur presentando, rispetto a quest’ultime una differenza sostanziale: essa si sviluppa nei confronti di una persona e ciò la rende più difficile da riconoscere e da contrastare.
Una premessa è d’obbligo: è normale che in una relazione, in particolare durante la fase dell’innamoramento, ci sia un certo grado di dipendenza, il desiderio di “fondersi coll’altro”, ma questo desiderio “fusionale” collo stabilizzarsi della relazione tende a scemare. Nella dipendenza affettiva, invece, il desiderio fusionale perdura inalterato nel tempo ed anzi ci si tende a “fondersi nell’altro”.
Il dipendente dedica completamente tutto sé stesso all’altro, al fine di perseguire esclusivamente il suo benessere e non anche il proprio, come dovrebbe essere in una relazione “sana”. I dipendenti affettivi, solitamente donne, nell’amore vedono la risoluzione dei propri problemi, che spesso hanno origini profonde quali “vuoti affettivi” dell’infanzia. Il partner assume il ruolo di un salvatore , egli diventa lo scopo della loro esistenza, la sua assenza anche temporanea da la sensazione al soggetto di non esistere (DuPont, 1998). Chi è affetto da dipendenza affettiva non riesce a cogliere ed a beneficiare dell’amore nella sua profondità ed intimità. A causa della paura dell’abbandono, della separazione, della solitudine, si tende a negare i propri desideri e bisogni, ci si “maschera” replicando antichi copioni passati, gli stessi che hanno ostacolato la propria crescita personale.
Proprio per questi motivi spesso questo tipo di personalità dipendente si sceglie partner “problematici”, portatori a loro volta di altri tipi di dipendenza (droghe, alcol, gioco d’azzardo, ecc…). Ciò sempre al fine di negare i propri bisogni, perchè l’altro ha bisogno di essere aiutato. Ma è un aiuto “malato” in cui si diventa “codipendenti”, anzi si rafforza la dipendenza dell’altro, perchè possa essere sempre “nostro”. In questi casi la persona non è assolutamente in grado di uscire da una relazione che egli stesso ammette essere senza speranza, insoddisfacente, umiliante e spesso autodistruttiva. Inoltre sviluppa una vera e propria sintomatologia come ansia generalizzata, depressione, insonnia, inappetenza, malinconia, idee ossessive. Quasi sempre c’e incompatibilità d’anima, mancanza di rispetto, progetti di vita diversi se non opposti, bisogni e desideri che non possono essere condivisi, oltre ad essere poco presenti momenti di unione profonda e di soddisfazione reciproca.
Chi è affetto da tale tipo di dipendenza s’identifica con la persona amata. La caratteristica che accomuna tutti i rapporti dei dipendenti da amore è la paura di cambiare. Pieni di timore per ogni cambiamento, essi impediscono lo sviluppo delle capacità individuali e soffocano ogni desiderio e ogni interesse.I dipendenti affettivi sono ossessionati da bisogni irrealizzabili e da aspettative non realistiche. Ritengono che occupandosi sempre dell’altro la loro relazione diventi stabile e durataura. Ma, immancabilmente, le situazioni di delusione e risentimento che si possono verificare li precipitano nella paura che il rapporto non possa essere stabile e duraturo, ed il circolo vizioso riparte, a volte addirittura “amplificato”. Non ci si rende conto che l’amore richiede onesta e integrità personale perché l’amore è un accrescimento reciproco, uno scambio reciproco tra persone che si amano.Gli affetti che comportano paura e dipendenza, tipici della dipendenza affettiva, sono invece destinati a distruggere l’amore. Chi soffre di tale dipendenza è così attento a non ferire l’altro, da non rendersi conto che in questo modo finisce col ferire gravemente sé stesso.
Spesso, anche se non sempre e necessariamente, la persona amata è irraggiungibile per colui o colei che ne dipende. Anzi, in questi casi si può affermare che la dipendenza si fonda sul rifiuto, anzi, se non ci fosse, paradossalmente, il presunto amore non durerebbe. Infatti la dipendenza si alimenta dal rifiuto, dalla negazione di se, dal dolore implicito nelle difficoltà e cresce in proporzione inversa alla loro irrisolvibilità. A questo riguardo Interessanti sono anche le considerazioni della psichiatria Marta Selvini Palazzoli. A suo parere quello che incatena nella dipendenza affettiva è l‘Hybris, vale a dire la ingiustificata, assurda, sconsiderata presunzione di farcela. La presunzione di riuscire prima o poi a farsi amare da chi proprio non vuole saperne di amarci o di amarci nel modo in cui noi pretendiamo
Il già citato psicanalista Fenichel è del parere che gli amoredipendenti necessitano enormemente di essere amati nonostante abbiano scarse capicità di amare. Essi elemosinano continuamente dal partner maggior amore ottenendo, però il risultato opposto. Si legano a partner che considerano non adatti a loro, ma nonostante ciò li renda arrabbiati ed infelici non riescono a liberarsi di quest’ultimi.
La dipendenza affettiva colpisce, sopratutto il sesso femminile, in tutte le fascie d’età . Sono donne fragili che, alla continua ricerca di un amore che le gratifichi, si sentono inadeguate.Esse hanno difficoltà a prendere coscienza di loro stesse e del loro diritto al proprio benessere che non hanno ancora imparato che amarsi è non amare troppo, che amarsi è poter stare in una relazione senza dipendere e senza elemosinare attenzioni e continue richieste di conferme.
Attualmente, la dipendenza affettiva, non è stata classificata come patologia nei vari sistemi diagnostici psichiatrici, come il DSM IV e si cerca di farla rientrare nei vari disturbi contemplati in essi, anche se ricerche svolte in questo campo, come quelle di Giddens, la considerano come un disturbo autonomo. Secondo quest’ultimo la dipendenza presenta alcune specifiche caratteristiche: L’”ebbrezza” (il soggetto affettivamente dipendente prova una sensazione di ebbrezza dalla relazione dei partner, che gli è indispensabile per stare bene). La “dose” – il soggetto affettivamente cerca “dosi” sempre maggiori di presenza e di tempo da spendere insieme al partner. La sua mancanza lo getta in uno stato di prostrazione. Il soggetto esiste solo quando c’è l’altro e non basta il suo pensiero a rassicurarlo, ha bisogno di manifestazioni continue e concrete. L’aumento di questa “dose”non di rado esclude la coppia dal resto del mondo. Se la dipendenza è reciproca la coppia si alimenta di se stessa. L’altro è visto come un’ evasione, come l’unica forma di gratificazione della vita. Le normali attività quotidiane sono trascurate quotidianamente. L’unica cosa importante è il tempo trascorso con l’altro perché è la prova della propria esistenza, senza di lui non si esiste, diventa inimmaginabile pensare la propria vita senza l’altro. Tutto ciò rivela un basso grado di autostima, seguito da sentimenti di vergogna e di rimorso. In alcuni momenti si è “lucidi” su questo tipo di relazione con l’altro, s’intuisce che la dipendenza è dannosa ed è necessario farne a meno. Ma subentra la considerazione di essere dipendenti e ciò rafforza il basso livello d’autostima personale e quindi spinge ancora di più verso l’altro che accoglie e perdona, ben felice, talvolta, di possedere. Quindi ogni tentativo di riscatto dalla propria dipendenza muore sul nascere.
A queste caratteristiche comune a tutte le dipendenze, elaborate da Giddens, nè aggiungerei, un’altra, non presente nelle altre dipendenze: la PAURA. Paura ossessiva e fobica di perdere la persona amata, che s’alimenta a dismisura ad ogni piccolo segnale negativo che si percepisce. A volte basta rimanere inaspettatamente soli o non ricevere una telefonata per avere paura di un’abbandono definitivo.
Inoltre nel soggetto affetto da tale tipo di dipendenza è possibile rintracciare una sorta di ambivalenza affettiva che è riassumibile nella massima del poeta latino Ovidio: “Non posso stare nè con tè, nè senza di tè”. “Non posso stare con tè” per il dolore che si prova in seguito alle umiliazioni, maltrattamenti, tradimenti e quant’altro si subisce. “Non posso stare senza di tè” perchè è indicibile la paura e l’angoscia che si prova al solo pensiero di perdere la persona amata.
Riepilogando i sintomi della dipendenza affettiva sono (l’elenco è lungi dall’essere esaustivo):
Ossessione dell’altro
Paura di perdere l’amore
Paura dell’abbandono, della separazione
Paura della solitudine e della distanza
Paura di mostrarsi per quello che si è
Senso di colpa
Senso d’inferiorità nei confronti del partner
Rancore e Rabbia
Coinvolgimento totale e vita sociale limitata
Gelosia e possessività
Concluderei con una considerazione:
Un’amore autentico nasce dall’incontro fra due unità e non due metà
Invito a visionare il film “Adele H” la storia della prima dipendente affettiva
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