A molti di noi è capitato di vivere un amore non corrisposto: di esserci innamorati di qualcuno che ci ha respinto. Possiamo aver accusato il colpo, provando una sofferenza superficiale, simile a un taglio fatto con la carta che dopo poco tempo guarisce, senza lasciare alcuna cicatrice. Oppure il rifiuto può averci riaperto una ferita dolorosa e profonda che ben conosciamo: se durante l’infanzia un famigliare ha adottato un atteggiamento rifiutante nei nostri confronti o crescendo alcuni partner ci hanno allontanato è molto più faticoso metabolizzare l’accaduto.
Dopo essere stati respinti è come se nella nostra mente si installasse un filtro che condiziona i nostri pensieri e i nostri comportamenti: metterci in relazione con gli altri diventa complesso. Per esempio possiamo essere inclini a cercare costantemente l’approvazione e il riconoscimento da parte delle altre persone e parallelamente sviluppare una vulnerabilità ad ogni commento e critica negativa che riceviamo. Possiamo fraintendere una gentilezza di un amico/a per un suo interesse romantico oppure sentirci respinti anche quando in realtà non lo siamo, scappando per primi. Possiamo cercare di compensare il profondo senso di solitudine e il bisogno di affetto che proviamo, volendo a tutti i costi una relazione, anche con qualcuno a cui non interessiamo o che non può darci quello che vorremmo per mancanza di compatibilità o perché già impegnato in una relazione. In alcuni casi, per la sua indisponibilità, lo/a idealizziamo e diventa per noi irresistibile, una vera e propria ossessione. Nonostante la quotidiana dose di frustrazione e dolore nutriamo una speranza incrollabile che prima o poi lo/a convertiremo al nostro amore. Scegliamo quel legame ad ogni costo per non sentirci senza valore come in passato anche se realisticamente è una relazione che non ha presente né futuro, in cui sostanzialmente replichiamo un copione che ci è famigliare e da cui non sappiamo uscire.
Le ferite psicologiche che conseguono ad un rifiuto non vanno fatte “infettare” perché rischiamo di sviluppare una sintomatologia di tipo depressivo.
Quando veniamo respinti, la nostra ragione non riesce a prendere le distanze dalla sofferenza che ne consegue. Proviamo una forte tristezza, ansia, disagio, senso di vuoto e/o rabbia che in rari casi può innescare gravi forme di aggressività, eterodiretta o autodiretta. Spesso la cronaca nera narra di partner respinti che cercano vendetta o che si fanno male.
Quando veniamo rifiutati immancabilmente sviluppiamo un atteggiamento estremamente autocritico, identificando tutti i nostri difetti e sviluppando la convinzione di essere inadeguati (per esempio “non sono abbastanza interessante per lui/lei”) arrivando a credere che vivremo sempre la stessa situazione (“nessuno mi amerà mai perché non sono interessante per nessuno”).
Riesaminiamo ogni istante della relazione alla ricerca del passo falso che abbiamo commesso (“non avrei mai dovuto…”), colpevolizzandoci e idealizzando l’altro come perfetto, unico a poterci salvare e che può legittimare il nostro valore. La convinzione profonda che sviluppiamo è: se avessimo fatto qualcosa di diverso avremmo potuto realizzare il nostro sogno d’amore.
Quando la nostra autostima comincia a sgretolarsi parallelamente iniziamo a costruirci (più o meno consapevolmente) una corazza per evitare di rivivere la sofferenza che abbiamo già provato. Iniziamo a isolarci, a fuggire dagli altri, alterando il nostro naturale senso di appartenenza.
Tutti questi pensieri e comportamenti in realtà non fanno altro che aumentare il nostro dolore, come se gettassimo sale sulla ferita.
Quando una persona che non ci vuole afferma: “non dipende da te, ma da me” è l’assoluta verità: non le interessiamo e semplicemente il suo volere va accettato. Se non ce lo dice, come nel caso del ghosting è una verità ancora più incontrovertibile oltre che una grande fortuna perché ci ha mostrato, dileguandosi, tutta la sua immaturità affettiva.
L’amore è un magico incontro in cui si allineano bisogni infantili, desideri, attrazioni fisiche e mentali, complicità emotive, stili di vita, aspettative e progettualità.
Veniamo respinti quando l’altro ritiene che non è possibile far combaciare questi aspetti tra di noi.
La canzone “La ballata dell’Amore cieco” di Fabrizio de Andre descrive la dinamica di un amore che arriva a far diventare cieca una persona. Nel testo della canzone si parla di continue prove estreme d’amore che la persona amata chiede all’altro, finalizzate ad annullare del tutto la personalità in un perverso gioco di potere
“Un uomo onesto, un uomo probo Tralalalalla tralallaleru S’innamorò perdutamente D’una che non lo amava niente.Gli disse portami domani Tralalalalla tralallaleru Gli disse portami domani Il cuore di tua madre per i miei cani.Lui dalla madre andò e l’uccise Tralalalalla tralallaleru Dal petto il cuore le strappò E dal suo amore ritornò.Non era il cuore, non era il cuore Tralalalalla tralallaleru Non le bastava quell’orrore Voleva un’altra prova del suo cieco amore.Gli disse amor se mi vuoi bene Tralalalalla tralallaleru Gli disse amor se mi vuoi bene Tagliati dei polsi le quattro vene.Le vene ai polsi lui si tagliò Tralalalalla tralallaleru E come il sangue ne sgorgò Correndo come un pazzo da lei tornò.Gli disse lei ridendo forte, Tralalalalla tralallalero Gli disse lei ridendo forte, L’ultima tua prova sarà la morte.E mentre il sangue lento usciva E ormai cambiava il suo colore, La vanità fredda gioiva, Un uomo s’era ucciso per il suo amore.Fuori soffiava dolce il vento Tralalalalla tralallaleru Ma lei fu presa da sgomento Quando lo vide morir contento.Morir contento e innamorato Quando a lei niente era restato Non il suo amore non il suo bene Ma solo il sangue secco delle sue vene. “
La bellssima “Canzone dell’Amore Perduto” di Fabrizio de Andrè descrive l’illusione iniziale di ogni amore per sempre: “Non ci lasceremo mai, mai e poi mai”. Ma col tempo tutto si trasfoma e può finire: vorrei dirti ora le stesse cose ma come fan presto, amore, ad appassire le rose così per noi . Perchè si confonde la passione per amore per sempre, ma la passione è destinata, insorabilmente a finire. E si finisce per cercare una nuova passione con l’illusione, questa si eterna, di trovare un amore per sempre.
Ricordi sbocciavan le viole con le nostre parole “Non ci lasceremo mai, mai e poi mai”,
vorrei dirti ora le stesse cose ma come fan presto, amore, ad appassire le rose così per noi
l’amore che strappa i capelli è perduto ormai, non resta che qualche svogliata carezza e un po’ di tenerezza.
E quando ti troverai in mano quei fiori appassiti al sole di un aprile ormai lontano, li rimpiangerai
ma sarà la prima che incontri per strada che tu coprirai d’oro per un bacio mai dato, per un amore nuovo.
E sarà la prima che incontri per strada che tu coprirai d’oro per un bacio mai dato, per un amore nuovo.
La Canzone dei Vecchi Amanti cantata da Battiato è la traduzione italiana de La chanson des vieux amants di Jacques Brel . In questa sede viene proposta come canzone che rievoca amori che non finiscono mai, nonostante gli alti e bassi, nonostante le separazioni perchè ” Certo ci fu qualche tempesta, Anni d’amore alla follia. Mille volte tu dicesti basta Mille volte io me ne andai via. ” ma ” Ti amo ancora sai ti amo. So tutto delle tue magie E tu della mia intimità Sapevo delle tue bugie Tu delle mie tristi viltà. So che hai avuto degli amanti Bisogna pur passare il tempo Bisogna pur che il corpo esulti Ma c’é voluto del talento Per riuscire ad invecchiare senza diventare adulti.” In quest’ultima frase è espresso il concetto che ogni amore può invecchiare ma mantenendo sempre,anche se in parte, un suo aspetto adolescenziale.
La Canzone Dei Vecchi Amanti – Franco Battiato Certo ci fu qualche tempesta Anni d’amore alla follia. Mille volte tu dicesti basta Mille volte io me ne andai via. Ed ogni mobile ricorda In questa stanza senza culla I lampi dei vecchi contrasti Non c’era più una cosa giusta Avevi perso il tuo calore Ed io la febbre di conquista. Mio amore mio dolce meraviglioso amore Dall’alba chiara finché il giorno muore Ti amo ancora sai ti amo. So tutto delle tue magie E tu della mia intimità Sapevo delle tue bugie Tu delle mie tristi viltà. So che hai avuto degli amanti Bisogna pur passare il tempo Bisogna pur che il corpo esulti Ma c’é voluto del talento Per riuscire ad invecchiare senza diventare adulti. Mio amore mio dolce mio meraviglioso amore Dall’alba chiara finché il giorno muore Ti amo ancora sai ti amo. Il tempo passa e ci scoraggia Tormenti sulla nostra via Ma dimmi c’é peggior insidia Che amarsi con monotonia. Adesso piangi molto dopo Io mi dispero con ritardo Non abbiamo più misteri Si lascia meno fare al caso Scendiamo a patti con la terra Però é la stessa dolce guerra. Mon amour Mon doux, mon tendre, mon merveilleux amour De l’aube claire jusqu’à la fin du jour Je t’aime encore, tu sais, je t’ame.
Le persone trovano sempre le parole giuste, ma sbagliano l’accento. E vedo che preferiscono i prìncipi ai princìpi che si pèrdono sul perdòno, che vogliono tutto sùbito senza ricordare cosa hanno subìto che non gettano mai l’àncora ma ne vogliono sempre ancòra che desiderano le loro vite leggère ma non sanno lèggere negli occhi e ho capito che le persone trovano sempre le parole giuste, ma sbagliano l’accento.
(Gio Evan)
In questa bellissima poesia di Gio Evan viene espresso quella che è una degli errori principali nella comunicazione di coppia: sentire e voler comunicare le giuste parole ma sbagliarle nell’esprimerle. Sbagliare anche un semplice accento può cambiare il senso di una parola al pari di sbagliare una tonalità nel comunicare può cambiare il senso della comunicazione stessa. Scelta delle parole, tonalità nel comunicare ed, appunto, anche accento possono avvicinare l’altro come allontanarlo.
Come affermava il sociologo Bauman: ‘Il fallimento di una relazione è quasi sempre un fallimento di comunicazione‘
In questo brano del grande poeta Whitmann viene descritta una coppia che si ritrova, dopo essersi lasciati e si rendono conto di essersi amati e di non averlo compreso a suo tempo. La sequenza della conversazione è di una significatività incredibile nel descrivere le sensazioni che entrambi rievocano e continuano a provare. Da leggere attentamente
Ti sei fatta crescere i capelli. – Così pare. – Ce li avevi corti quando stavi con me. – Lo so. – Stai bene, comunque. – Grazie. – Sei proprio bella. – Non dovresti dirmelo. Sono la tua ex. – Posso dirtelo. Ti ho amato. Sul suo viso comparve una smorfia: – Mi hai amato solo perché sono bella? – No, affatto. Ti ho amato perché… in realtà non lo so perché. – Come sarebbe a dire che non sai perché? – Che tu eri… non lo so. Ci fu un attimo di silenzio, poi lei finalmente sorrise: – Io ti amavo. Tu non l’hai mai capito ma io ti amavo. – Tu non me l’hai mai detto. – Hai ragione. Ti ho detto molte altre cose ma non quella. – Mi hai detto che ero un coglione, che ti trattavo male, che ero immaturo… Sbuffò:- Dio mio, lo sai che non lo pensavo davvero. – E che pensavi davvero? – Che eri fantastico. Avevi quel modo tutto tuo di vedere le cose e io amavo quel tuo modo di vedere le cose. Eri adorabile quando mi sorridevi dall’altra parte della strada e quando mi accarezzavi la guancia appena mi vedevi giù di morale. Eri dolcissimo quando mi permettevi di stare tra le tue braccia e sai io odiavo sentirmi piccola ma quando mi stringevi mi sentivo minuscola e stavo comunque benissimo nei tuoi abbracci ed eri straordinario quando stavi ad ascoltare le mie paturnie sconnesse come stai facendo ora… Si fermò per un istante con le lacrime agli occhi, poi lo guardò e la voce le tremava mentre pronunciava quelle parole: – E come ora mi sorridevi. Solo che poi mi baciavi e mi dicevi che andava tutto bene. Fu un attimo. Un attimo in cui lui la baciò. E le disse: Va tutto bene. Lei fece un respiro profondo. – Non avresti dovuto farlo. Sono la tua ex. – Sai perché ti ho amato? – No. – Perché era impossibile non farlo. Eri qualcosa che non riuscivo a capire e quando ci provavo mi perdevo. E quando mi perdevo trovavo i tuoi occhi e loro mi guardavano sempre con un amore sconfinato, non importava quanto io fossi stronzo o quanto ti facessi incazzare o piangere, i tuoi occhi continuavano sempre ad amarmi. Io ti amavo perché eri forte, piccola. Tu pensavi sempre che fossi io a proteggere te e invece eri tu a proteggere me. Io non ti ho mai protetto. E tu non hai idea… non hai idea di quante volte mi sono odiato. Mi sono odiato tutte le volte in cui non ti difendevo e non ti dicevo di amarti. Tu non mi dicevi di amarmi ma io sapevo che mi amavi. Io non ti dicevo di amarti ma ti amavo. Tu lo sapevi? Il sorriso della donna era triste: No. – Ma ti amavo. Davvero. – Se l’avessi saputo non mi sarei arresa con te. – Quindi adesso saremmo ancora insieme? – Io sono ancora con te. – Ma stai con lui. – E tu stai con lei. – Ma sono con te. Lei sospirò: Non fa niente. Siamo andati oltre il nostro amore. – Non lo so. Siamo ancora qui. – Non siamo più quelli che eravamo. – Hai ragione. Hai i capelli più lunghi. Finalmente lei rise. E lui non riuscì a non dirglielo: Il tuo sorriso è sempre lo stesso, però. Il suo sguardo si fece serio in quello di lui: Anche la tua capacità di farmi sorridere è sempre la stessa. – Vuoi sapere la verità? – Sì. – Anche il mio amore per te è rimasto lo stesso. – Vuoi sapere la verità? – Sì. – Li vedi i miei occhi? Si guardarono. – Li vedo. – Non lo capisci? – Che cosa? – Hai detto che ti guardavano con un amore sconfinato. – Sì. – Neanche loro sono cambiati. Ti stanno guardando ancora così.
Questa favola di Hermann Hesse descrive, attraverso l’uso della metafora dell’albero, che ogni forma diventa completa se si unisce ad un altra. Si può vivere benissimo da soli ma prima o poi ci si confronta con la mancanza di una persona da amare che permette di completare la nostra esistenza.
Piktor era appena entrato in Paradiso, quando si trovò di fronte ad un albero, che era nel contempo uomo e donna. Piktor salutò l’albero con riverenza e gli chiese: “ Sei tu l’Albero della Vita?” Siccome, tuttavia, il serpente pretendeva di rispondergli al posto dell’albero, egli volse le spalle e se ne andò. Era tutto occhi, gli piaceva tutto così tanto. Percepiva chiaramente di trovarsi a casa sua, presso la sorgente della vita. E di nuovo vide un albero, che era nel contempo sole e luna. Piktor disse: “Sei tu l’albero della vita?”.
Il sole annuì e rise, la luna annuì e sorrise. I fiori più meravigliosi lo guardarono, con svariati colori e luce, con occhi e visi diversi. Alcuni annuivano e ridevano, altri annuivano e sorridevano, altri ancora né annuivano, né sorridevano. Tacevano ebbri, immersi in se stessi, come affogando nel proprio profumo. Uno cantava il canto lillà, un altro cantava la ninnananna blu scura. Uno dei fiori aveva grandi occhi blu, un altro gli ricordava il suo primo amore. Uno odorava di giardino dell’infanzia, come la voce della madre, il suo dolce buon odore. Un altro gli sorrideva e tendeva verso di lui una curva lingua rossa. Lui la leccò, essa aveva un sapore forte e selvaggio, sapeva di resina e miele e anche del bacio di una donna. Tra tutti i fiori Piktor s’aggirava pieno di nostalgia e gioia inquieta. Come se fosse una campana, il suo cuore batteva forte; bramava l’ignoto, incerto era il suo desiderio. Piktor vide un uccello, lo vide seduto nell’erba, raggiante di colori, sembrava che possedesse tutti i colori. Chiese al bell’ uccello variopinto: “ Oh uccello, dov’è la felicità?” “La felicità?”, rispose il bell’uccello e rise con il suo becco dorato, ” la felicità, amico mio, è dappertutto, nelle montagne e nelle valli, nei fiori e nei cristalli.
Con queste parole l’uccello felice scosse le sue piume, tirò il collo, agitò la coda, strizzò l’occhio, rise di nuovo, poi rimase seduto immobile, seduto tranquillamente nell’erba, ed ecco: l’uccello era diventato un fiore colorato, piume, foglie, artigli e radici. Nella brillantezza dei colori, danzando, divenne una pianta. Piktor lo guardò con meraviglia. Subito dopo il fiore uccello mosse le sue foglie e gli stami, già si era stancato di essere un fiore, non aveva più radici, si moveva leggero, pendeva lentamente all’insù e già – era diventato una splendente farfalla, che si cullava sospesa, senza peso, tutta luce, con un viso completamente luminoso. Piktor si stupì molto.
Ma la nuova farfalla, la gioiosa e variopinta farfalla uccello fiore con il volto colorato e luminoso volava in cerchio attorno a Piktor, brillò al sole, si fece cadere a terra come un fiocco, rimase ferma davanti ai piedi di Piktor, respirò delicata, tremò un po’ con le ali splendenti, ed ecco che si trasformò in un cristallo colorato, dal quale brillava una luce rossa. La rossa pietra preziosa splendeva meravigliosamente tra l’erba verde e le piante, chiara come delle campane in festa. Il suo regno, però, la profondità della terra, sembrava che la chiamasse; velocemente cominciò a diventare sempre più piccola, minacciando perfino di sparire. Allora Piktor, spinto da un insaziabile desiderio, si avvicinò alla pietra e la portò a sé. Con entusiasmo, egli fissò lo sguardo nella sua luce magica che sembrava riempirgli il cuore con un presentimento di beatitudine. All’improvviso, strisciando sul ramo di un albero secco, il serpente gli sibilò nell’orecchio: “La pietra si trasforma in tutto ciò che vuoi. Svelto, dille il tuo desiderio, prima che sia troppo tardi! Piktor si spaventò, temendo di perdere la sua felicità. Velocemente disse la parola e si trasformò in un albero. Ecco, proprio questo aveva desiderato da sempre, essere un albero. Gli alberi sembravano così pieni di calma, forza e dignità. Piktor era diventato un albero. Crebbe con le radici nella terra, si alzò verso il cielo, foglie e rami crescevano dalle sue membra e lui fu molto soddisfatto di ciò.
Egli era molto felice. Succhiò con fibre assetate profonde nella terra fresca e soffiava con le sue foglie in alto nel blu. I coleotteri vivevano nella sua corteccia, ai suoi piedi vivevano lepri e tartarughe, nei suoi rami gli uccelli. L’albero Piktor era contento e non contava gli anni che passavano. Passarono molti anni prima di rendersi conto che la sua felicità non era perfetta. Lentamente imparò a vedere con gli occhi da albero. Alla fine si vide e diventò triste.
Infatti, egli vide che intorno a lui, in paradiso, la maggior parte degli esseri si trasformava molto spesso, che tutto scorreva in un flusso incantato di perenni trasformazioni. Vide i fiori diventare pietre preziose o volare via come folgoranti colibrì. Vide accanto a sé più di un albero scomparire all’improvviso: uno si era sciolto in una fonte, un altro era diventato un coccodrillo, un altro ancora nuotava fresco e contento con grande piacere, come un pesce allegro guizzando, inventando nuovi giochi in nuove forme. Elefanti prendevano la veste di rocce, giraffe la forma di fiori. Lui invece, l’albero di Piktor, rimaneva sempre lo stesso, non poteva più trasformarsi. Dal momento in cui scoprì questo, la sua felicità svanì: cominciò ad invecchiare e assunse sempre più quell’aspetto stanco, serio e afflitto, che si può osservare in molti vecchi alberi. Lo si può vedere tutti i giorni anche nei cavalli, negli uccelli, negli uomini e in tutti gli esseri: Quando non possiedono più il dono della trasformazione, prima o poi sprofondano nella tristezza e nell’abbattimento, e perdono ogni bellezza. Un bel giorno, una fanciulla dai capelli biondi e dal vestito azzurro si perse in quella parte del Paradiso. Correva tra gli alberi e prima di allora non aveva mai pensato di desiderare il dono della trasformazione. Più di una furba scimmia sorrise alle sue spalle, più di un cespuglio la sfiorò teneramente con un virgulto, più di un albero le gettò un fiore, una noce, una mela senza che lei vi badasse. Quando l’albero Piktor vide la fanciulla, sentì una grande nostalgia, un desiderio di felicità come non gli era ancora mai accaduto. E allo stesso tempo cominciò a riflettere, era come se il suo stesso sangue gli gridasse: “Ritorna in te ! Ricordati in questa ora di tutta la tua vita, trovane il senso, altrimenti sarà troppo tardi e non ti sarà più data alcuna felicità. Ed egli obbedì. Si ricordò delle sue origini, dei suoi anni da uomo, del suo ingresso nel Paradiso, e specialmente di quell’attimo, prima che diventasse un albero, quell’attimo meraviglioso in cui aveva tenuto in mano la pietra magica. Allora, mentre ogni cambiamento gli era aperto, la vita era stata ardente in lui come non mai! Egli pensò all’uccello, che aveva riso, all’albero con il sole e la luna; gli venne l’idea che aveva omesso qualcosa, dimenticato qualcosa, e che il consiglio del serpente non era stato buono.
La ragazza sentì un fruscio tra le foglie dell’albero Pictor, alzò lo sguardo e sentì muoversi dentro di lei, con un improvviso dolore al cuore, nuovi pensieri,nuovi desideri, nuovi sogni. Attratta da una forza sconosciuta si sedette sotto l’albero. Esso le appariva solitario e triste, ma anche bello, commovente e nobile nella sua muta tristezza; era incantata dalla canzone che sussurrava lieve la sua chioma. Si appoggiò al suo tronco ruvido e sentì l’albero rabbrividire profondamente. Sentì lo stesso brivido nel proprio cuore. Il suo cuore era stranamente dolente, nel cielo della sua anima scorrevano nuvole, dai suoi occhi cadevano lentamente pesanti lacrime. Cosa stava succedendo? Perché doveva soffrire così? Perché il suo cuore voleva spaccare il petto e andare a fondersi con lui, con esso, con il bel solitario?
L’albero tremò silenzioso fin nelle radici, tanto intensamente raccoglieva in sé ogni forza vitale e si protendeva verso la ragazza in un ardente desiderio di unione. Perché si era lasciato raggirare dal serpente per essere confinato così per sempre solo in un albero! Oh come era stato cieco, come era stato stolto! Davvero, allora sapeva così poco, davvero era stato così lontano dal segreto della vita? No, anche allora l’aveva oscuramente sentito e presagito e con dolore e profonda comprensione pensò ora all’albero che era fatto di uomo e di donna! Un uccello rosso venne volando, un uccello verde e rosso, un uccello ardito e bello, descriveva nel cielo un cerchio. La fanciulla lo vide volare, vide cadere dal suo becco qualcosa che brillò di rosso come il sangue rosso, come la brace, cadde tra le verdi piante e splendette di tanta familiarità tra le verdi piante. Il richiamo squillante della sua rossa luce era tanto intenso che la fanciulla si chinò e sollevò quel rossore. Ed ecco che era un cristallo, un rubino ed intorno ad esso non ci poteva essere oscurità.
Non appena la fanciulla ebbe la pietra fatata nella sua bianca mano, si avverò il sogno che le aveva riempito il cuore. La bella fu presa, svanì e divenne tutt’uno con l’albero, si affacciò dal suo tronco come un robusto giovane ramo che rapido si innalzò verso di lui. Ora tutto era a posto, il mondo era in ordine solo ora era stato trovato il paradiso. Piktor non era più un vecchio albero intristito, ora cantava forte Piktoria, Viktoria. Egli fu trasformato. Perché questa volta aveva raggiunto la giusta, l’eterna trasformazione, perché da una metà era diventato l’intero. D’ora in poi avrebbe potuto trasformarsi quanto volesse. Continuamente scorreva il flusso incantato del divenire attraverso il suo sangue, eternamente prendeva parte al creato che sorgeva ogni ora nuovo. Egli diventò capriolo, diventò pesce, diventò uomo e serpente, nuvola e uccello. Ma in ogni forma era completo, era una coppia, aveva la luna e il sole, aveva in sé il maschio e la femmina, scorreva come un fiume gemello attraverso le terre, stava come una duplice stella nel cielo.
In questa bellissima poesia dello scrittore scomparso Luis Sepùlveda è raccontata una storia d’amore sotto forma di riflessioni poetiche. Da leggere attentamente. Ho evidenziato gli aspetti più salienti.
L’ultima nota del tuo addio mi disse che non sapevo nulla e che arrivavo al tempo necessario di imparare i perchè della materia. Così, fra pietra e pietra seppi che sommare è unire e che sottrarre ci lascia soli e vuoti. Che i colori riflettono l’ingenua volontà dell’occhio. Che i solfeggi e i sol raddoppiano la fame dell’orecchio Che è la strada e la polvere la ragione dei passi.
Che la via più breve fra due punti è il giro che li unisce in un abbraccio sorpreso.
Che due più due può essere un pezzo di Vivaldi. Che i geni gentili stanno nelle bottiglie di buon vino.
Una volta imparato tutto questo tornai a disfare l’eco del tuo addio e al suo posto palpitante scrissi la Più Bella Storia d’Amore ma, come dice l’adagio, non si finisce mai d’imparare e aver dubbi.
Così, ancora una volta facilmente come nasce una rosa o si morde la coda un a stella cadente, seppi che la mia opera era scritta perchè La Più Bella Storia d’Amore è possibile solo nella serena e inquietante calligrafia dei tuoi occhi
Nella bellissima e significativa lettera della scrittrice George Sand ad Alfred de Musset, che riporto di seguito, è descritto quello che dovrebbe essere un addio sereno e senza rancore ad un amore. Addio non facile da effettuare nella realtà se non dopo un processo di elaborazione del lutto della fine di un amore. Ma questa lettera può rappresentare un punto di arrivo di un processo psicologico di separazione ed in questa sede viene proposta in tal senso.
“No, mio caro, queste tre lettere non sono l’ultima stretta di mano dell’amante che ti lascia, è l’abbraccio del fratello che ti resta. Questo sentimento è troppo bello, troppo puro e troppo dolce perché io non provi mai il bisogno di finire con lui. Che il mio ricordo non avveleni nessuna delle gioie della tua vita, ma non lasciare che queste gioie distruggano e rovinino il mio ricordo. Sii felice, sii amato. Come non potresti esserlo?
Ma guardami da un piccolo angolo segreto del mio cuore e scendi lì nei tuoi giorni di tristezza per trovare lì una consolazione o un incoraggiamento. Ama dunque, mio Alfred, ama più che puoi. Ama una donna giovane, bella e che non abbia ancora amato, trattala bene, e non la fare soffrire. Il cuore di una donna è una cosa così delicata Quando non è un ghiaccio o una pietra! Io credo che non esista una via di mezzo nel tuo modo di amare. La tua anima è fatta per amare ardentemente, o per seccarsi tutta in una volta. Tu l’hai detto cento volte, e tu hai avuto modo di smentire Ma nulla, nulla ha sminuito questa tua affermazione, Non c’è al mondo nulla che valga se non l’amore. Forse tu mi hai amato con pena, per amare un’altra con abbandono. Forse quella che verrà ti amerà meno di me, e forse sarà più felice e più amata. Forse il tuo nuovo amore sarà più romantico e più giovane. Ma il tuo cuore, il tuo buon cuore, non lo proteggere, te ne prego. Che si metta tutto intero In tutti gli amori della tua vita, fino a quando un giorno tu possa guardare indietro e dire come me, io ho sofferto spesso, mi son sbagliata qualche volta Ma io ho amato“
Il seguente brano di Oriana Fallaci descrive in maniera significativa il vissuto emotivo e psicologico della fine di un amore. Da leggere attentamente.
“La morte di un amore è come la morte d’una persona amata. Lascia lo stesso strazio, lo stesso vuoto, lo stesso rifiuto di rassegnarti a quel vuoto. Perfino se l’hai attesa, causata, voluta per autodifesa o buonsenso o bisogno di libertà, quando arriva ti senti invalido. Mutilato. Ti sembra d’essere rimasto con un occhio solo, un orecchio solo, un polmone solo, un braccio solo, una gamba sola, il cervello dimezzato, e non fai che invocare la metà perduta di te stesso: colui o …colei con cui ti sentivi intero. Nel farlo non ricordi nemmeno le sue colpe, i tormenti che ti inflisse, le sofferenze che ti impose. Il rimpianto ti consegna la memoria d’una persona pregevole anzi straordinaria, d’un tesoro unico al mondo, nè serve a nulla dirsi che ciò è un’offesa alla logica, un insulto all’intelligenza, un masochismo. (In amore la logica non serve, l’intelligenza non giova e il masochismo raggiunge vette da psichiatria.) Poi, un po’ per volta, ti passa. Magari senza che tu sia consapevole lo strazio si smorza, si dissolve, il vuoto diminuisce e il rifiuto di rassegnarti ad esso scompare. Ti rendi finalmente conto che l’oggetto del tuo amore morto non era nè una persona pregevole anzi straordinaria, nè un tesoro unico al mondo, lo sostituisci con un’altra metà o supposta metà di te stesso e per un certo periodo recuperi la tua interezza. Però sull’anima rimane uno sfregio che la imbruttisce, un livido nero che la deturpa e ti accorgi di non essere più quello o quella che eri prima del lutto. La tua energia si è infiacchita, la tua curiosità si è affievolita e la tua fiducia nel futuro s’è spenta perchè hai scoperto d’aver sprecato un pezzo d’esistenza che nessuno ti rimborserà. Ecco perchè, anche se un amore langue senza rimedio, lo curi e ti sforzi di guarirlo. Ecco perchè, anche se in stato di coma boccheggia, cerchi di rinviare l’istante in cui esalerà l’ultimo respiro: lo trattieni e in silenzio lo supplichi di vivere ancora un giorno, un’ora, un minuto. Ecco infine perché , anche quando smette di respirare, esiti a seppellirlo o addirittura tenti di resuscitarlo. Alzati Lazzaro e cammina. “
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