Barthes procede a un’analisi razionale dei sentimenti e delle emozioni che prendono l’innamorato, partendo invece dall’analisi del ramo semantico del discorso amoroso: prende alcuni concetti fondamentali, percepiti un po’ da tutti gli innamorati, e li esplicita con incredibile chiarezza, andando a fondo nelle dinamiche psicologiche e relazionali.
Per ricollegarci alle analisi precedenti, vediamo che anche Barthes sostiene l’unicità dell’amore, come già Schopenauer, ma va oltre, specificando cosa comporta questa unicità per chi ama.
«Nella mia vita, io incontro milioni di corpi; di questi milioni io posso desiderarne delle centinaia; ma, di queste centinaia, io ne amo uno solo. L’altro di cui io sono innamorato mi designa la specialità del mio desiderio. L’amore per una persona unica si riflette su chi ama, facendogli percepire la propria identità e unicità. Quindi l’amore contribuisce a darci la sensazione di essere individui unici.»1
La sua analisi più completa è nella forma di un dizionario, uno studio del linguaggio del “discorso amoroso” attraverso grandi capolavori letterari.
Nella sua opera troviamo tutte le fasi che possono caratterizzare l’amore. Egli afferma che le fasi dell’incontro amoroso sono essenzialmente tre in chi lo rievoca: la cattura, come per la metafora dell’uccellagione degli antichi egizi, consiste nell’essere rapito da un’immagine, da un sentimento, in un attimo; il conoscersi, la dolcezza della scoperta dell’altro, nella sua perfezione, la meraviglia di aver trovato chi dipinge ciò che inconsapevolmente era nel proprio ideale, un fatto casuale che si percepisce come soprannaturale; il “seguito: la lunga sequela di sofferenze, dolori, angosce, sconforti, rancori, impacci e tranelli” che minaccia di far crollare tutto il sistema di valori che quell’incontro aveva messo in piedi per l’amante e l’amato.2 Ma Barthes precisa, “c’è un’illusione del tempo amoroso. Io credo che sia un episodio, con un inizio e una fine. E tuttavia la ricostruzione del rapimento è a posteriori.”
Nel dettaglio, Barthes parla della fase dell’innamoramento,3 come di un rapimento in cui il rapitore non ha intenzionalità, ma è l’oggetto d’amore, e che causa una ferita profonda nel soggetto rapito (immagine da un lato simile a quella che ci riportano le incisioni degli antichi egizi, e dall’altro vicina all’espressione che si usa in inglese per l’innamoramento, fall in love, cadere in amore).
Chi si innamora è in un certo senso vuoto, inconsciamente disponibile, in attesa dell’occasione; il pretesto è occasionale, ma deve essere un tassello che si incastra nella propria struttura profonda.
Cos’è che fa innamorare?
«C’è qualcosa che coincide esattamente col mio desiderio (di cui non so niente) (…) talora, ciò che dell’altro mi esalta è l’aderenza a un grande modello culturale (io credo di vedere l’altro dipinto da un artista del passato), talaltra, ad aprire in me la ferita, è invece una certa disinvoltura dell’apparizione: io posso innamorarmi di un atteggiamento un po’ volgare (assunto per provocare): ci sono delle trivialità sottili, mobili, che passano rapidamente sul corpo dell’altro (…) l’aspetto che mi colpisce si riferisce a una particella di pratica, al momento fuggevole di una posizione… ».
Il rapporto tra innamoramento e amare è esplorato da Barthes, eppure non ha univoca soluzione. Si sa che essere innamorato non somiglia a nient’altro, ed è perciò riconoscibile in qualunque tipo di rapporto. L’essere innamorato è un desiderio di possesso, l’amare è quella componente del sentimento che, oltre a prendere, vuole anche dare. Quando si parla di dare in amore, ci si riferisce solo raramente a sacrifici materiali: tollerare, non dire, non litigare, non alzare la voce, non usare un certo linguaggio… a volte fingere, per proteggere. Si tratta quindi di una padronanza dei sentimenti che sembra contrastare con la natura un po’ infantile, quasi morbosa, dell’essere innamorati. Eppure non riescono a procedere separati.4
L’amore visto dall’esterno diventa osceno,5 perché la sentimentalità è stata screditata dall’opinione moderna, non vi è sistema di idee che stimi o difenda l’amore-passione, non vi è una teoria ufficiale, come ai tempi del Simposio, né una scusante, oramai l’essere innamorato è una teoria fuori moda e fuori dalla storia, e rende perciò osceno l’innamorato, esposto senza difese. L’innamorato mostra i suoi sentimenti senza una mediazione di forma, che sia un romanzo, o una rappresentazione teatrale, una qualche finzione che possa proteggerlo dall’opinione comune. La solitudine che lo caratterizza è timida, non trasgressiva, né eroica. Se vi è comprensione per l’innamoramento adolescenziale, ciò non vale se questo “errore” viene reiterato, e se l’innamorato diventa recidivo. Finché l’innamorato resta tale, è solo, ma la solitudine a cui ci si riferisce non è quella di una persona, poiché anzi l’innamorato ha spesso persone con cui confidarsi, ma una solitudine di sistema, di una comprensione che non sia compassione e “attesa che passi”: gli unici capaci di questa comprensione sono gli altri innamorati, gli altri folli.
Barthes non trascura il concetto di dipendenza6, e anzi individua un momento in cui essa diventa consapevole, ma non viene allontanata, né svalutata, né considerata un problema: anche negli elementi più futili, il soggetto amoroso di Barthes non limita e non nasconde la sua dipendenza, perché così dà valore alla sua domanda d’amore, come chi venera una divinità mostra il sacrificio che sta offrendo.
Solo in determinate condizioni spunta un desiderio di imporsi nel soggetto amoroso: ad esempio, nel momento in cui l’oggetto amato fosse subordinato a qualcun altro, chi ama si sentirebbe non solo consegnato nelle mani dell’amato, ma sottoposto alle decisioni di qualcun altro, che egli non ha scelto, e solo per questo non riuscirebbe a tollerare la propria dipendenza.
In questi casi iniziano le rivendicazioni e le recriminazioni, perché il dono e il sacrificio diventano un modo per “dominare” nella coppia, come se l’abnegazione fosse una moneta di scambio, con la quale si ottiene importanza e potere nella coppia. Un regalo amoroso viene accuratamente scelto, e vengono valutate tutte le possibili motivazioni per cui esso possa non essere ben accolto, perché può deludere o sembrare troppo impegnativo, e perché diventa un sostituto dell’oggetto amoroso, quasi un feticcio (“indossa il mio regalo”, “dorme con il mio regalo”…). Ma bisogna fare attenzione proprio al parlare di un dono, che questo sia un regalo materiale, o un sacrificio, o una resa incondizionata all’altro: significa porlo nell’economia di scambio nella coppia. Esso diventa: “faccio più di quanto fai tu”.
In realtà, anche se nel ragionamento amoroso c’è un calcolo di pro e contro, è generalmente per impazienza: si è consapevoli che il dispendio è aperto, e si tratta di un tesoro di energie e pensieri che viene dilapidato senza alcun guadagno assicurato.7
Un’altra caratteristica dell’analisi di Barthes, è il molteplice livello in cui un soggetto innamorato utilizza il linguaggio: l’immaginazione. Il soggetto amoroso, inchiodato da se stesso in una situazione insopportabile, inizia a immaginarsi una storia, l’immagine di se stesso che si salva, attraverso una fuga, o un viaggio, una separazione, il suicidio, o un nuovo amore. Elaborando una finzione, l’innamorato combatte idealmente i propri demoni: “farei così, andrei da lei… , affronterei … , direi … , e lei non potrebbe resistermi e mi inseguirebbe, … ”. Dando origine a questa finzione,8 il soggetto amoroso vede se stesso ancora pieno di dignità, e in questo luogo fittizio, come una catarsi, trova un attimo di quiete dal suo tormento, una piccola rivincita. Questa non è una soluzione definitiva però: l’innamorato non può uscirne sulla base di un pensiero immaginato, la trappola non si spezza da sola.
1 R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, 2005, Attesa, p. 17
2 R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, 2005, Incontro (p.109)
3 R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, 2005, Rapimento, p.162
4 ibidem, p.101
5 ibidem p.149
6 ibidem, p.79
7 Al contrario di come dirà Bauman in seguito, lo vedremo nel §1.3.5
8 ibidem, p. 211
Le riflessioni riportate sono tratti dal libro di Roland Barthes “Frammenti di un discorso amoroso” edito da Einaudi, testo che consiglio vivamente di leggere perchè “illuminante” sulla fenomenologia dell’amore
ABBANDONO – A seconda di tale o talaltra circostanza, il soggetto amoroso si sente trascinato dalla paura di un pericolo, di una ferita, di un abbandono, di un improvviso cambiamento – sentimento che egli esprime con la parola angoscia
ANGOSCIA – A seconda di tale o talaltra circostanza, il soggetto amoroso si sente trascinato dalla paura di un pericolo, di una ferita, di un abbandono, di un improvviso cambiamento – sentimento che egli esprime con la parola angoscia…
Lo psicotico vive nel timore del crollo. Ma “la paura clinica del crollo è la paura d’un crollo che è già stato subito… e vi sono dei momenti in cui un paziente ha bisogno che gli si dica che il crollo la cui paura mina la sua vita è già avvenuto”. Lo stesso avviene, a quanto sembra, per l’angoscia d’amore: essa è la paura di una perdita che è già avvenuta, sin dall’inizio dell’amore, sin dal momento in cui sono stato stregato. Bisognerebbe che qualcuno potesse dirmi: “Non essere più angosciato, tu l’hai già perduto(a)”.
ANNULLAMENTO – Accesso di linguaggio durante il quale il soggetto giunge ad annullare l’oggetto amato sotto il volume dell’amore stesso: con una perversione propriamente amorosa, il soggetto ama l’amore, non l’oggetto.
ASSENZA – Ogni episodio che mette in scena l’assenza dell’oggetto amato – quali che siano la causa e la durata – e tende a trasformare questa assenza in prova d’abbandono…
Orbene l’unica assenza è quella dell’altro; è l’altro che parte, sono io che resto. L’altro è in stato di perpetua partenza, sempre sul punto di mettersi in viaggio; egli è, per vocazione, migratore, errante; io che amo sono invece, per vocazione inversa, sedentario, immobile, a disposizione, in attesa, sempre nello stesso posto, in giacenza, come un pacco in un angolo sperduto della stazione… Esprimere l’assenza… è come dire: “Sono meno amato di quanto io ami”.
ATTESA – tumulto d’angoscia suscitato dall’attesa dell’essere amato in seguito a piccolissimi ritardi (appuntamenti, telefonate, lettere, ritorni)…
“Sono innamorato? – Si, poiché sto aspettando”. L’altro, invece non aspetta mai. Talvolta, ho voglia di giocare a quello che non aspetta; cerco allora di tenermi occupato, di arrivare in ritardo; ma a questo gioco, io perdo sempre: qualunque cosa io faccia, mi ritrovo sempre sfaccendato, esatto, o per meglio dire in anticipo. La fatale identità dell’innamorato non è altro che: io sono quello che aspetta.
(Nel transfert, si aspetta sempre – dal medico, dal professore, dall’analista. Ancora più evidentemente se sto aspettando allo sportello d’una banca, o alla partenza d’un aereo, subito stabilisco un rapporto aggressivo con l’impiegato, con l’hostess, la cui indifferenza svela e irrita la mia sudditanza; si può così dire che, ove vi è attesa, vi è transfert: io dipendo da una persona che si fa a mezzo e che impiega del tempo a darsi – come se si trattasse di far scemare il mio desiderio, d’infiacchire il mio bisogno. Fare aspettare: prerogativa costante di qualsiasi potere, “passatempo millenario dell’umanità”)….
Un cavaliere era innamorato di una nobildonna. Lei gli disse: “Sarò vostra solo quando voi avrete passato cento notti ad aspettarmi seduto su una sedia, nel mio giardino, sotto la mia finestra.” Ma alla novantanovesima notte, il cavaliere si alzò, prese la sua sedia sotto il braccio e se n’andò.
CATASTROFE – Crisi violenta durante il quale il soggetto, sentendo la situazione amorosa come un vicolo cieco, una trappola da cui non potrà mai più uscire, si vede destinato a una totale distruzione di sé…
Vi sono due tipi di disperazione: la disperazione pacata, la rassegnazione attiva (“Io vi amo come bisogna amare: nella disperazione”), e la disperazione violenta: un bel giorno, in seguito a un incidente qualsiasi, mi chiudo nella mia stanza e scoppio in lacrime: sono in balia di una forza che mi soverchia, asfissiato dal dolore; il mio corpo s’irrigidisce e si contrae: come in un lampo, freddo e tagliente, io vedo la distruzione a cui sono condannato. Tutto ciò non ha niente di paragonabile alla prostrazione insidiosa, ma in fondo civile, degli amori difficili; non c’è alcun rapporto con l’annichilimento in cui si viene a trovare il soggetto abbandonato: qui, sono come folgorato, ma lucido. La sensazione che provo è quella di una vera e propria catastrofe: “Ecco, sono veramente fottuto!”…
La catastrofe amorosa s’avvicina forse a ciò che, nel campo psicotico, è stata definita situazione estrema, la quale è “una situazione che il soggetto vive conscio del fatto che esso finirà col distruggerlo irrimediabilmente”; l’immagine è ricavata da ciò che avvenne a Dachau… le due situazioni hanno in comune questo: esse sono, alla lettera, due situazioni paniche: entrambe sono senza seguito, senza ritorno: io mi sono talmente trasfuso nell’altro che, quando esso mi viene a mancare, non riesco più a riprendermi, a ricuperarmi: sono perduto per sempre.
COLPE – In un qualsiasi episodio trascurabile della vita d’ogni giorno, il soggetto crede di aver mancato nei confronti dell’essere amato e prova per questo un sentimento di colpevolezza.
COMPASSIONE – Il soggetto prova un sentimento di compassione nei riguardi dell’oggetto amato ogni volta che lo vede, lo sente o lo sa infelice o minacciato da qualcosa che è estraneo alla relazione amorosa in sé.
FASTIDIO – Sentimento di moderata gelosia che coglie il soggetto amoroso quando vede che l’interesse dell’essere amato è catturato e distolto da persone, oggetti o azioni che ai suoi occhi agiscono come altrettanti rivali secondari.
FESTA – Il soggetto amoroso vive ogni incontro con l’essere amato come una festa.
IDENTIFICAZIONE – Il soggetto s’identifica dolorosamente con qualsiasi persona (o qualsiasi personaggio) che nella struttura amorosa occupi la sua stessa posizione.
MOSTRUOSO – Il soggetto si rende improvvisamente conto di stare soffocando l’oggetto amato chiudendolo in una rete di soprusi: di colpo, da individuo sventurato che desta compassione, egli si sente diventare un essere mostruoso.
PERCHE’ – Mentre da un alto si domanda ossessivamente perché non è amato, dall’altro il soggetto amoroso continua a credere che in fin dei conti l’oggetto amato lo ama, solo che non glielo dice.
PIANGERE – Piangendo, voglio impressionare qualcuno, fare pressione su di lui (“Guarda che cosa hai fatto di me”). Questo qualcuno potrebbe essere – ed è quasi sempre – l’altro, che si vuole in questo modo costringere ad assumere apertamente la sua commiserazione o la sua insensibilità; ma potrei anche essere io stesso: mi faccio piangere per provare a me stesso che non è un’illusione: le lacrime sono dei segni, non delle espressioni. Attraverso le mie lacrime io racconto una storia, do vita a un mito del dolore e da quel momento mi uniformo ad esso: posso vivre con il dolore perché, piangendo, mi do un interlocutore enfatico che riceve il messaggio più “vero”: quello del mio corpo e non già quello della mia lingua. “Cosa sono mai le parole? Una lacrima sola dice assai di più”.
RISVEGLIO – Modi diversi in cui il soggetto amoroso si ritrova, al suo risveglio, nuovamente assalito dall’assillo della sua passione.
ROVESCIAMENTO: – “Non riesco a capirti” vuol dire: “Non saprò mai che cosa pensi veramente di me”. Non posso decifrare te perché non so come tu decifri me.
SEGNI – Sia che voglia dar prova del suo amore, sia che si sforzi di decifrare se l’altro lo ama, il soggetto amoroso non ha a sua disposizion nessun sistema di segni sicuri.
Il soggetto amoroso si domanda non già se egli deve dichiarare all’essere amato il suo amore (non è una figura della confessione), ma in che misura deve nascondergli i “turbamenti” (le turbolenze) della sua passione: i suoi desideri, le sue angustie, in poche parole, i suoi eccessi (nel linguaggio raciniano: il suo furore).
L’amore acceca: questo proverbio è falso. L’amore spalanca gli occhi, rende chiaroveggenti: “Di te, su te, io posseggo tutto il sapere”. Dice il sottoposto al padrone: tu hai ogni potere su di me, ma io so tutto di te.
SUICIDIO – Nella sfera amorosa, il desiderio di suicidio è frequente: basta un niente per destarlo. …Idea di suicidio; idea di separazione; idea di ritiro solitario; idea di viaggio; idea di oblazione, ecc.; posso immaginare varie soluzioni alla crisi amorosa e difatti non faccio che pensare a questo. Eppure, per quanto alienato sia, io non ho difficoltà a cogliere, attraverso queste idee ricorrenti, una figura unica, vuota, che è poi quella della via di scampo; ciò con cui, con compiacenza, io vivo, è il fantasma d’un altro ruolo: il ruolo di qualcuno che “se la cava”.
Dott. Roberto Cavaliere
Psicologo, Psicoterapeuta
Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)
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