Le persone trovano sempre le parole giuste, ma sbagliano l’accento. E vedo che preferiscono i prìncipi ai princìpi che si pèrdono sul perdòno, che vogliono tutto sùbito senza ricordare cosa hanno subìto che non gettano mai l’àncora ma ne vogliono sempre ancòra che desiderano le loro vite leggère ma non sanno lèggere negli occhi e ho capito che le persone trovano sempre le parole giuste, ma sbagliano l’accento.
(Gio Evan)
In questa bellissima poesia di Gio Evan viene espresso quella che è una degli errori principali nella comunicazione di coppia: sentire e voler comunicare le giuste parole ma sbagliarle nell’esprimerle. Sbagliare anche un semplice accento può cambiare il senso di una parola al pari di sbagliare una tonalità nel comunicare può cambiare il senso della comunicazione stessa. Scelta delle parole, tonalità nel comunicare ed, appunto, anche accento possono avvicinare l’altro come allontanarlo.
Come affermava il sociologo Bauman: ‘Il fallimento di una relazione è quasi sempre un fallimento di comunicazione‘
Oggi più che mai, in un periodo
di forzato isolamento e di distacco dagli affetti e dalle relazioni vis a vis,
il ruolo della tecnologia e dei social assurge a strumento primario e
necessario per contrastare gli effetti della solitudine. I suoi meccanismi e
contraddizioni però portano spesso a interrogarsi sugli effetti nella vita
reale e nell’equilibrio psicologico delle persone e sulla loro natura di
effettivi facilitatori o creatori di un sistema illusorio di relazioni
(im)produttive.
Tra i film che meglio analizzano
l’evoluzione del nostro rapporto con il virtuale sicuramente “Her” è uno degli
esempi di maggior rilievo. Uscito nel 2013 ,“Her” è un film diretto e scritto
da Spike Jonze con protagonista Joaquin Phoenix e vincitore del Premio Oscar
alla miglior sceneggiatura. Ambientato in un futuro non troppo lontano in cui i
computer sono ancora più parte integrante della quotidianità, segue le vicende
di Theodore, che per lavoro scrive lettere per conto di altri dettandole al pc.
Proprio la sua occupazione, in cui si ritrova a esprimere sentimenti altrui, denota
la sua particolare sensibilità e profondità nel vivere i rapporti. A farne da
controparte vi è però la sua difficoltà nel relazionarsi ad altre persone e
mostrare i suoi sentimenti e i suoi pensieri più profondi.
Uomo solitario e alle prese con
un matrimonio da poco finito, Theodore decide di provare un nuovo sistema
operativo molto avanzato, scegliendo una voce di interfaccia femminile.
Samantha, questo il nome della voce del sistema, ha una straordinaria capacità
di apprendimento e di evoluzione e inizia ad instaurare un rapporto sempre più
profondo con il giovane scrittore. Capace di un vero e proprio sviluppo
psicologico, il sistema operativo (la cui voce nella versione originale è di
Scarlett Johansson) riesce pian piano a rimettere in piedi Theodore
consentendogli di affrontare la rottura con Catherine, la sua ex moglie, e di
uscire dalla malinconia e apatia che lo avevano completamente avvolto. La fine
del suo matrimonio lo porta a prendere coscienza dei suoi limiti e a
concentrarsi su quanto una relazione sana richieda anche spirito di sacrificio
e compressi.
Theodore e Samantha iniziano così
una inusuale storia d’amore, tra materiale e immateriale, in cui l’affinità
intellettuale supera anche la mancanza di un corpo. In una Los Angeles sempre
più connessa, in cui altissimi grattacieli e skyline fatti di luci fanno da
sfondo alle passeggiate romantiche dei due, non si può fare a meno di
riflettere su quanto la tecnologia si ritagli un posto sempre più grande nelle
nostre vite andando a colmare inevitabili vuoti relazionali. Sempre più
connessi ma sempre più distanti, questo sembra il messaggio di Jonze, quanto
mai attuale. Deleghiamo ogni giorno di più il nostro mondo affettivo alla
tecnologia; ormai anche la conoscenza avviene su app di incontri supportando
così le nostri relazioni in maniera solo apparentemente innocua.
Oltre al lato virtuale, la
relazione tra Theodore e Samantha è contraddistinta dalla piena dedizione da
parte di quest’ultima nei confronti dello scrittore. Essa infatti è plasmata in
base alle sue preferenze e ai suoi dati, dunque in funzione del suo fruitore.
Se da una parte questo è ciò che serve al protagonista per avanzare negli stadi
della separazione e accettazione del divorzio, si configura però con tutti i
limiti dovuti alla diversa essenza e linguaggio dei suoi componenti. Un
rapporto amoroso sano infatti ha bisogno di superare le aspettative e
proiezioni che il virtuale per sua stessa natura riesce a creare e esaltare.
Il finale del film rivela un punto di vista molto più in favore dell’importanza del coltivare rapporti umani sinceri, per quanto difficile in un mondo connesso ma solitario, con tutto l’impegno e la capacità di entrare realmente in contatto e prendere coscienza di sé che ne consegue. Spunto di riflessione e occasione per porsi qualche domanda, “Her” è una pellicola intima e delicata sull’essenza dell’amore e sulla libertà che lo circonda superando le tendenze al controllo in una società dove tutto sembra dover rientrare all’interno di schemi predefiniti.
In questo brano del grande poeta Whitmann viene descritta una coppia che si ritrova, dopo essersi lasciati e si rendono conto di essersi amati e di non averlo compreso a suo tempo. La sequenza della conversazione è di una significatività incredibile nel descrivere le sensazioni che entrambi rievocano e continuano a provare. Da leggere attentamente
Ti sei fatta crescere i capelli. – Così pare. – Ce li avevi corti quando stavi con me. – Lo so. – Stai bene, comunque. – Grazie. – Sei proprio bella. – Non dovresti dirmelo. Sono la tua ex. – Posso dirtelo. Ti ho amato. Sul suo viso comparve una smorfia: – Mi hai amato solo perché sono bella? – No, affatto. Ti ho amato perché… in realtà non lo so perché. – Come sarebbe a dire che non sai perché? – Che tu eri… non lo so. Ci fu un attimo di silenzio, poi lei finalmente sorrise: – Io ti amavo. Tu non l’hai mai capito ma io ti amavo. – Tu non me l’hai mai detto. – Hai ragione. Ti ho detto molte altre cose ma non quella. – Mi hai detto che ero un coglione, che ti trattavo male, che ero immaturo… Sbuffò:- Dio mio, lo sai che non lo pensavo davvero. – E che pensavi davvero? – Che eri fantastico. Avevi quel modo tutto tuo di vedere le cose e io amavo quel tuo modo di vedere le cose. Eri adorabile quando mi sorridevi dall’altra parte della strada e quando mi accarezzavi la guancia appena mi vedevi giù di morale. Eri dolcissimo quando mi permettevi di stare tra le tue braccia e sai io odiavo sentirmi piccola ma quando mi stringevi mi sentivo minuscola e stavo comunque benissimo nei tuoi abbracci ed eri straordinario quando stavi ad ascoltare le mie paturnie sconnesse come stai facendo ora… Si fermò per un istante con le lacrime agli occhi, poi lo guardò e la voce le tremava mentre pronunciava quelle parole: – E come ora mi sorridevi. Solo che poi mi baciavi e mi dicevi che andava tutto bene. Fu un attimo. Un attimo in cui lui la baciò. E le disse: Va tutto bene. Lei fece un respiro profondo. – Non avresti dovuto farlo. Sono la tua ex. – Sai perché ti ho amato? – No. – Perché era impossibile non farlo. Eri qualcosa che non riuscivo a capire e quando ci provavo mi perdevo. E quando mi perdevo trovavo i tuoi occhi e loro mi guardavano sempre con un amore sconfinato, non importava quanto io fossi stronzo o quanto ti facessi incazzare o piangere, i tuoi occhi continuavano sempre ad amarmi. Io ti amavo perché eri forte, piccola. Tu pensavi sempre che fossi io a proteggere te e invece eri tu a proteggere me. Io non ti ho mai protetto. E tu non hai idea… non hai idea di quante volte mi sono odiato. Mi sono odiato tutte le volte in cui non ti difendevo e non ti dicevo di amarti. Tu non mi dicevi di amarmi ma io sapevo che mi amavi. Io non ti dicevo di amarti ma ti amavo. Tu lo sapevi? Il sorriso della donna era triste: No. – Ma ti amavo. Davvero. – Se l’avessi saputo non mi sarei arresa con te. – Quindi adesso saremmo ancora insieme? – Io sono ancora con te. – Ma stai con lui. – E tu stai con lei. – Ma sono con te. Lei sospirò: Non fa niente. Siamo andati oltre il nostro amore. – Non lo so. Siamo ancora qui. – Non siamo più quelli che eravamo. – Hai ragione. Hai i capelli più lunghi. Finalmente lei rise. E lui non riuscì a non dirglielo: Il tuo sorriso è sempre lo stesso, però. Il suo sguardo si fece serio in quello di lui: Anche la tua capacità di farmi sorridere è sempre la stessa. – Vuoi sapere la verità? – Sì. – Anche il mio amore per te è rimasto lo stesso. – Vuoi sapere la verità? – Sì. – Li vedi i miei occhi? Si guardarono. – Li vedo. – Non lo capisci? – Che cosa? – Hai detto che ti guardavano con un amore sconfinato. – Sì. – Neanche loro sono cambiati. Ti stanno guardando ancora così.
Questa favola di Hermann Hesse descrive, attraverso l’uso della metafora dell’albero, che ogni forma diventa completa se si unisce ad un altra. Si può vivere benissimo da soli ma prima o poi ci si confronta con la mancanza di una persona da amare che permette di completare la nostra esistenza.
Piktor era appena entrato in Paradiso, quando si trovò di fronte ad un albero, che era nel contempo uomo e donna. Piktor salutò l’albero con riverenza e gli chiese: “ Sei tu l’Albero della Vita?” Siccome, tuttavia, il serpente pretendeva di rispondergli al posto dell’albero, egli volse le spalle e se ne andò. Era tutto occhi, gli piaceva tutto così tanto. Percepiva chiaramente di trovarsi a casa sua, presso la sorgente della vita. E di nuovo vide un albero, che era nel contempo sole e luna. Piktor disse: “Sei tu l’albero della vita?”.
Il sole annuì e rise, la luna annuì e sorrise. I fiori più meravigliosi lo guardarono, con svariati colori e luce, con occhi e visi diversi. Alcuni annuivano e ridevano, altri annuivano e sorridevano, altri ancora né annuivano, né sorridevano. Tacevano ebbri, immersi in se stessi, come affogando nel proprio profumo. Uno cantava il canto lillà, un altro cantava la ninnananna blu scura. Uno dei fiori aveva grandi occhi blu, un altro gli ricordava il suo primo amore. Uno odorava di giardino dell’infanzia, come la voce della madre, il suo dolce buon odore. Un altro gli sorrideva e tendeva verso di lui una curva lingua rossa. Lui la leccò, essa aveva un sapore forte e selvaggio, sapeva di resina e miele e anche del bacio di una donna. Tra tutti i fiori Piktor s’aggirava pieno di nostalgia e gioia inquieta. Come se fosse una campana, il suo cuore batteva forte; bramava l’ignoto, incerto era il suo desiderio. Piktor vide un uccello, lo vide seduto nell’erba, raggiante di colori, sembrava che possedesse tutti i colori. Chiese al bell’ uccello variopinto: “ Oh uccello, dov’è la felicità?” “La felicità?”, rispose il bell’uccello e rise con il suo becco dorato, ” la felicità, amico mio, è dappertutto, nelle montagne e nelle valli, nei fiori e nei cristalli.
Con queste parole l’uccello felice scosse le sue piume, tirò il collo, agitò la coda, strizzò l’occhio, rise di nuovo, poi rimase seduto immobile, seduto tranquillamente nell’erba, ed ecco: l’uccello era diventato un fiore colorato, piume, foglie, artigli e radici. Nella brillantezza dei colori, danzando, divenne una pianta. Piktor lo guardò con meraviglia. Subito dopo il fiore uccello mosse le sue foglie e gli stami, già si era stancato di essere un fiore, non aveva più radici, si moveva leggero, pendeva lentamente all’insù e già – era diventato una splendente farfalla, che si cullava sospesa, senza peso, tutta luce, con un viso completamente luminoso. Piktor si stupì molto.
Ma la nuova farfalla, la gioiosa e variopinta farfalla uccello fiore con il volto colorato e luminoso volava in cerchio attorno a Piktor, brillò al sole, si fece cadere a terra come un fiocco, rimase ferma davanti ai piedi di Piktor, respirò delicata, tremò un po’ con le ali splendenti, ed ecco che si trasformò in un cristallo colorato, dal quale brillava una luce rossa. La rossa pietra preziosa splendeva meravigliosamente tra l’erba verde e le piante, chiara come delle campane in festa. Il suo regno, però, la profondità della terra, sembrava che la chiamasse; velocemente cominciò a diventare sempre più piccola, minacciando perfino di sparire. Allora Piktor, spinto da un insaziabile desiderio, si avvicinò alla pietra e la portò a sé. Con entusiasmo, egli fissò lo sguardo nella sua luce magica che sembrava riempirgli il cuore con un presentimento di beatitudine. All’improvviso, strisciando sul ramo di un albero secco, il serpente gli sibilò nell’orecchio: “La pietra si trasforma in tutto ciò che vuoi. Svelto, dille il tuo desiderio, prima che sia troppo tardi! Piktor si spaventò, temendo di perdere la sua felicità. Velocemente disse la parola e si trasformò in un albero. Ecco, proprio questo aveva desiderato da sempre, essere un albero. Gli alberi sembravano così pieni di calma, forza e dignità. Piktor era diventato un albero. Crebbe con le radici nella terra, si alzò verso il cielo, foglie e rami crescevano dalle sue membra e lui fu molto soddisfatto di ciò.
Egli era molto felice. Succhiò con fibre assetate profonde nella terra fresca e soffiava con le sue foglie in alto nel blu. I coleotteri vivevano nella sua corteccia, ai suoi piedi vivevano lepri e tartarughe, nei suoi rami gli uccelli. L’albero Piktor era contento e non contava gli anni che passavano. Passarono molti anni prima di rendersi conto che la sua felicità non era perfetta. Lentamente imparò a vedere con gli occhi da albero. Alla fine si vide e diventò triste.
Infatti, egli vide che intorno a lui, in paradiso, la maggior parte degli esseri si trasformava molto spesso, che tutto scorreva in un flusso incantato di perenni trasformazioni. Vide i fiori diventare pietre preziose o volare via come folgoranti colibrì. Vide accanto a sé più di un albero scomparire all’improvviso: uno si era sciolto in una fonte, un altro era diventato un coccodrillo, un altro ancora nuotava fresco e contento con grande piacere, come un pesce allegro guizzando, inventando nuovi giochi in nuove forme. Elefanti prendevano la veste di rocce, giraffe la forma di fiori. Lui invece, l’albero di Piktor, rimaneva sempre lo stesso, non poteva più trasformarsi. Dal momento in cui scoprì questo, la sua felicità svanì: cominciò ad invecchiare e assunse sempre più quell’aspetto stanco, serio e afflitto, che si può osservare in molti vecchi alberi. Lo si può vedere tutti i giorni anche nei cavalli, negli uccelli, negli uomini e in tutti gli esseri: Quando non possiedono più il dono della trasformazione, prima o poi sprofondano nella tristezza e nell’abbattimento, e perdono ogni bellezza. Un bel giorno, una fanciulla dai capelli biondi e dal vestito azzurro si perse in quella parte del Paradiso. Correva tra gli alberi e prima di allora non aveva mai pensato di desiderare il dono della trasformazione. Più di una furba scimmia sorrise alle sue spalle, più di un cespuglio la sfiorò teneramente con un virgulto, più di un albero le gettò un fiore, una noce, una mela senza che lei vi badasse. Quando l’albero Piktor vide la fanciulla, sentì una grande nostalgia, un desiderio di felicità come non gli era ancora mai accaduto. E allo stesso tempo cominciò a riflettere, era come se il suo stesso sangue gli gridasse: “Ritorna in te ! Ricordati in questa ora di tutta la tua vita, trovane il senso, altrimenti sarà troppo tardi e non ti sarà più data alcuna felicità. Ed egli obbedì. Si ricordò delle sue origini, dei suoi anni da uomo, del suo ingresso nel Paradiso, e specialmente di quell’attimo, prima che diventasse un albero, quell’attimo meraviglioso in cui aveva tenuto in mano la pietra magica. Allora, mentre ogni cambiamento gli era aperto, la vita era stata ardente in lui come non mai! Egli pensò all’uccello, che aveva riso, all’albero con il sole e la luna; gli venne l’idea che aveva omesso qualcosa, dimenticato qualcosa, e che il consiglio del serpente non era stato buono.
La ragazza sentì un fruscio tra le foglie dell’albero Pictor, alzò lo sguardo e sentì muoversi dentro di lei, con un improvviso dolore al cuore, nuovi pensieri,nuovi desideri, nuovi sogni. Attratta da una forza sconosciuta si sedette sotto l’albero. Esso le appariva solitario e triste, ma anche bello, commovente e nobile nella sua muta tristezza; era incantata dalla canzone che sussurrava lieve la sua chioma. Si appoggiò al suo tronco ruvido e sentì l’albero rabbrividire profondamente. Sentì lo stesso brivido nel proprio cuore. Il suo cuore era stranamente dolente, nel cielo della sua anima scorrevano nuvole, dai suoi occhi cadevano lentamente pesanti lacrime. Cosa stava succedendo? Perché doveva soffrire così? Perché il suo cuore voleva spaccare il petto e andare a fondersi con lui, con esso, con il bel solitario?
L’albero tremò silenzioso fin nelle radici, tanto intensamente raccoglieva in sé ogni forza vitale e si protendeva verso la ragazza in un ardente desiderio di unione. Perché si era lasciato raggirare dal serpente per essere confinato così per sempre solo in un albero! Oh come era stato cieco, come era stato stolto! Davvero, allora sapeva così poco, davvero era stato così lontano dal segreto della vita? No, anche allora l’aveva oscuramente sentito e presagito e con dolore e profonda comprensione pensò ora all’albero che era fatto di uomo e di donna! Un uccello rosso venne volando, un uccello verde e rosso, un uccello ardito e bello, descriveva nel cielo un cerchio. La fanciulla lo vide volare, vide cadere dal suo becco qualcosa che brillò di rosso come il sangue rosso, come la brace, cadde tra le verdi piante e splendette di tanta familiarità tra le verdi piante. Il richiamo squillante della sua rossa luce era tanto intenso che la fanciulla si chinò e sollevò quel rossore. Ed ecco che era un cristallo, un rubino ed intorno ad esso non ci poteva essere oscurità.
Non appena la fanciulla ebbe la pietra fatata nella sua bianca mano, si avverò il sogno che le aveva riempito il cuore. La bella fu presa, svanì e divenne tutt’uno con l’albero, si affacciò dal suo tronco come un robusto giovane ramo che rapido si innalzò verso di lui. Ora tutto era a posto, il mondo era in ordine solo ora era stato trovato il paradiso. Piktor non era più un vecchio albero intristito, ora cantava forte Piktoria, Viktoria. Egli fu trasformato. Perché questa volta aveva raggiunto la giusta, l’eterna trasformazione, perché da una metà era diventato l’intero. D’ora in poi avrebbe potuto trasformarsi quanto volesse. Continuamente scorreva il flusso incantato del divenire attraverso il suo sangue, eternamente prendeva parte al creato che sorgeva ogni ora nuovo. Egli diventò capriolo, diventò pesce, diventò uomo e serpente, nuvola e uccello. Ma in ogni forma era completo, era una coppia, aveva la luna e il sole, aveva in sé il maschio e la femmina, scorreva come un fiume gemello attraverso le terre, stava come una duplice stella nel cielo.
In questa bellissima poesia dello scrittore scomparso Luis Sepùlveda è raccontata una storia d’amore sotto forma di riflessioni poetiche. Da leggere attentamente. Ho evidenziato gli aspetti più salienti.
L’ultima nota del tuo addio mi disse che non sapevo nulla e che arrivavo al tempo necessario di imparare i perchè della materia. Così, fra pietra e pietra seppi che sommare è unire e che sottrarre ci lascia soli e vuoti. Che i colori riflettono l’ingenua volontà dell’occhio. Che i solfeggi e i sol raddoppiano la fame dell’orecchio Che è la strada e la polvere la ragione dei passi.
Che la via più breve fra due punti è il giro che li unisce in un abbraccio sorpreso.
Che due più due può essere un pezzo di Vivaldi. Che i geni gentili stanno nelle bottiglie di buon vino.
Una volta imparato tutto questo tornai a disfare l’eco del tuo addio e al suo posto palpitante scrissi la Più Bella Storia d’Amore ma, come dice l’adagio, non si finisce mai d’imparare e aver dubbi.
Così, ancora una volta facilmente come nasce una rosa o si morde la coda un a stella cadente, seppi che la mia opera era scritta perchè La Più Bella Storia d’Amore è possibile solo nella serena e inquietante calligrafia dei tuoi occhi
Nella bellissima e significativa lettera della scrittrice George Sand ad Alfred de Musset, che riporto di seguito, è descritto quello che dovrebbe essere un addio sereno e senza rancore ad un amore. Addio non facile da effettuare nella realtà se non dopo un processo di elaborazione del lutto della fine di un amore. Ma questa lettera può rappresentare un punto di arrivo di un processo psicologico di separazione ed in questa sede viene proposta in tal senso.
“No, mio caro, queste tre lettere non sono l’ultima stretta di mano dell’amante che ti lascia, è l’abbraccio del fratello che ti resta. Questo sentimento è troppo bello, troppo puro e troppo dolce perché io non provi mai il bisogno di finire con lui. Che il mio ricordo non avveleni nessuna delle gioie della tua vita, ma non lasciare che queste gioie distruggano e rovinino il mio ricordo. Sii felice, sii amato. Come non potresti esserlo?
Ma guardami da un piccolo angolo segreto del mio cuore e scendi lì nei tuoi giorni di tristezza per trovare lì una consolazione o un incoraggiamento. Ama dunque, mio Alfred, ama più che puoi. Ama una donna giovane, bella e che non abbia ancora amato, trattala bene, e non la fare soffrire. Il cuore di una donna è una cosa così delicata Quando non è un ghiaccio o una pietra! Io credo che non esista una via di mezzo nel tuo modo di amare. La tua anima è fatta per amare ardentemente, o per seccarsi tutta in una volta. Tu l’hai detto cento volte, e tu hai avuto modo di smentire Ma nulla, nulla ha sminuito questa tua affermazione, Non c’è al mondo nulla che valga se non l’amore. Forse tu mi hai amato con pena, per amare un’altra con abbandono. Forse quella che verrà ti amerà meno di me, e forse sarà più felice e più amata. Forse il tuo nuovo amore sarà più romantico e più giovane. Ma il tuo cuore, il tuo buon cuore, non lo proteggere, te ne prego. Che si metta tutto intero In tutti gli amori della tua vita, fino a quando un giorno tu possa guardare indietro e dire come me, io ho sofferto spesso, mi son sbagliata qualche volta Ma io ho amato“
Il seguente brano di Oriana Fallaci descrive in maniera significativa il vissuto emotivo e psicologico della fine di un amore. Da leggere attentamente.
“La morte di un amore è come la morte d’una persona amata. Lascia lo stesso strazio, lo stesso vuoto, lo stesso rifiuto di rassegnarti a quel vuoto. Perfino se l’hai attesa, causata, voluta per autodifesa o buonsenso o bisogno di libertà, quando arriva ti senti invalido. Mutilato. Ti sembra d’essere rimasto con un occhio solo, un orecchio solo, un polmone solo, un braccio solo, una gamba sola, il cervello dimezzato, e non fai che invocare la metà perduta di te stesso: colui o …colei con cui ti sentivi intero. Nel farlo non ricordi nemmeno le sue colpe, i tormenti che ti inflisse, le sofferenze che ti impose. Il rimpianto ti consegna la memoria d’una persona pregevole anzi straordinaria, d’un tesoro unico al mondo, nè serve a nulla dirsi che ciò è un’offesa alla logica, un insulto all’intelligenza, un masochismo. (In amore la logica non serve, l’intelligenza non giova e il masochismo raggiunge vette da psichiatria.) Poi, un po’ per volta, ti passa. Magari senza che tu sia consapevole lo strazio si smorza, si dissolve, il vuoto diminuisce e il rifiuto di rassegnarti ad esso scompare. Ti rendi finalmente conto che l’oggetto del tuo amore morto non era nè una persona pregevole anzi straordinaria, nè un tesoro unico al mondo, lo sostituisci con un’altra metà o supposta metà di te stesso e per un certo periodo recuperi la tua interezza. Però sull’anima rimane uno sfregio che la imbruttisce, un livido nero che la deturpa e ti accorgi di non essere più quello o quella che eri prima del lutto. La tua energia si è infiacchita, la tua curiosità si è affievolita e la tua fiducia nel futuro s’è spenta perchè hai scoperto d’aver sprecato un pezzo d’esistenza che nessuno ti rimborserà. Ecco perchè, anche se un amore langue senza rimedio, lo curi e ti sforzi di guarirlo. Ecco perchè, anche se in stato di coma boccheggia, cerchi di rinviare l’istante in cui esalerà l’ultimo respiro: lo trattieni e in silenzio lo supplichi di vivere ancora un giorno, un’ora, un minuto. Ecco infine perché , anche quando smette di respirare, esiti a seppellirlo o addirittura tenti di resuscitarlo. Alzati Lazzaro e cammina. “
Nel brano della scrittrice Jaime Sabines che riporto di seguito, viene descritto, con tratti anche dissacranti, una modalità per guarire da un amore malsano. Si può essere più o meno d’accordo col contenuto ma ritengo che sia un utile spunto di riflessione.
“Spero di riuscire a guarire da te, uno di questi giorni.
Devo smettere di fumarti, di berti, di pensarti. È possibile. Seguendo le prescrizioni della morale di turno. Mi prescrivo tempo, astinenza, solitudine.
Ti va bene se ti amo solo una settimana? Non è molto né poco, è abbastanza. In una settimana si possono riunire tutte le parole d’amore che sono state dette sulla terra e gli si può dare fuoco. Ti scalderò con quel falò dell’amore bruciato. E anche il silenzio. Perché le parole d’amore più belle si trovano tra le persone che non si dicono niente.
Bisogna bruciare anche quell’altro linguaggio laterale e sovversivo di chi ama. ( Tu sai come ti dico che ti amo quando ti dico: «Che caldo che fa», «Dammi l’acqua», «Sai guidare?», «Si è fatta notte»…Tra le persone, in mezzo alla tua famiglia e alla mia, ti ho detto «Si è fatto tardi», e tu sapevi che ti dicevo «Ti amo»).
Un’altra settimana per mettere insieme tutto l’amore del tempo. Per dartelo. Perché tu ne faccia quello che vuoi: conservarlo, accarezzarlo, buttarlo nell’immondizia. Non serve, è vero. Voglio solo una settimana per capire le cose. Perché tutto questo è molto simile a uscire da un manicomio per entrare in un cimitero.”
Si pensa che innamorarsi sia qualcosa di completamente spontaneo, che non richiede una decisione. E’ spontaneità sicuramente all’inizio ma poi richiede un impegno e l’impegno rimanda al prendere prima una decisione. Nella poesia di Sabina Esposto che riporto di seguito, c’è un elenco di “decisioni “da prendere se ci “decide” d’innamorarsi. La poesia rappresenta uno spunto di riflessione sul processo psicologico dell’innamoramento .
“Se decidi d’innamorarti di me, non promettermi mai nulla. Se decidi d’innamorarti di me, non lasciarmi sognar da sola. Se decidi d’innamorarti di me, innamoriamoci ogni istante, non solo per i primi tre appuntamenti. Se decidi d’innamorarti di me, prendi i miei lati oscuri e riempili di luce. Se decidi d’innamorarti di me, tieni sopra le tue spalle le mie lacrime. Io faro’ altrettanto. E peserà tutto di meno. Se decidi d’innamorarti di me, non correre verso di me, ma corri vicino a me. Se decidi d’innamorarti di me, ama le mie debolezze e considerale punti di forza.
Se decidi d’innamorarti di me, prendi il coraggio a quattro mani e raccontami di te. Anche se ti sembra di non aver nulla da dire. Se decidi d’innamorarti di me, non girarti nel letto, senza guardarmi. Addormentati con me. Se decidi d’innamorarti di me, devi correre anche il rischio di soffrire. Sia per me, che per te. Se decidi d’innamorarti di me, quando non m’amerai più, non fare in modo di farmi odiare da te. O di farti odiare da me. Se decidi d’innamorarti di me, non darmi prove d’amore. Prova a restare con me. Se decidi d’innamorarti di me, dimmi che mi ami solo quando lo senti e non quando si deve dire. Se decidi d’innamorarti di me, non dirmi che sono l’unica tra tanti. Dì che sono io e basta. Se decidi d’innamorarti di me, non dirmi in cosa devo credere, ma dimmi di credere sempre in qualcosa. Se decidi d’innamorarti di me, tieni a mente i miei sguardi e non tutte le parole che dirò. Se decidi d’innamorarti di me, non mentirmi mai. Neanche per amore. Se decidi d’innamorarti di me, fammi ballare, anche se non c’è musica. Se decidi d’innamorarti di me, non domandarmi perché sono triste. Tienimi la mano. Se decidi d’innamorarti di me, immagina che, anche se distanti, siamo comunque vicini. Se decidi d’innamorarti di me, non dirmi che son l’unica donna della tua vita. Dimmi che sono la donna della tua vita. Se decidi d’innamorarti di me, sappi che le mie mani non tremano per il freddo. E le tue mani sopra le mie, fermeranno quel tremito.”
Amare significa tante cose. Tra questi c’è l’amare le piccole cose della persona amata: i suoi difetti, le sue abitudini, le sue cose e tant’altro ancora. La poesia di seguito riportata descrive tutto ciò.
Le piccole cose che amo di te quel tuo sorriso un po’ lontano il gesto lento della mano con cui mi carezzi i capelli e dici: vorrei averli anch’io così belli e io dico: caro sei un po’ matto e a letto svegliarsi col tuo respiro vicino e sul comodino il giornale della sera la tua caffettiera che canta, in cucina l’odore di pipa che fumi la mattina il tuo profumo un po’ blasé il tuo buffo gilet le piccole cose che amo di teQuel tuo sorriso strano il gesto continuo della mano con cui mi tocchi i capelli e ripeti: vorrei averli anch’io così belli e io dico: caro me l’hai già detto e a letto stare sveglia sentendo il tuo respiro un po’ affannato e sul comodino il bicarbonato la tua caffettiera che sibila in cucina l’odore di pipa anche la mattina il tuo profumo un po’ demodé le piccole cose che amo di teQuel tuo sorriso beota la mania idiota di tirarmi i capelli e dici: vorrei averli anchío così belli e ti dico: cretino, comprati un parrucchino! e a letto stare sveglia a sentirti russare e sul comodino un tuo calzino e la tua caffettiera che è esplosa finalmente, in cucina! la pipa che impesta fin dalla mattina il tuo profumo di scimpanzé quell’orrendo gilet le piccole cose che amo di te.
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